mercoledì 30 luglio 2014

Quella bagarre sulle riforme

la Repubblica
30 luglio 2014 - 4 Commenti »
Stefano Rodotà
rodotaStiamo vivendo il periodo forse più difficile e complicato della nostra storia politica e istituzionale. Giunge alla conclusione un tempo abusivamente chiamato “Seconda Repubblica”, e che altro non è stato se non una lunga transizione verso il nulla di un berlusconismo che ha dissolto società e cultura e di larghe intese che hanno certificato l’assenza di iniziativa e fantasia politica, sostituite con un assemblaggio di materiali ormai logori.
Ora l’avvento di Matteo Renzi e del suo governo, con il larghissimo consenso che lo ha accompagnato alla prima verifica pubblica, sembrano offrire un approdo stabile, o che viene percepito come tale, con un affidarsi così fiducioso alla sua persona e alle sue iniziative che presso taluni diviene liberazione dall’obbligo stesso di pensare. A questo balenare di una stabilità politica si è voluto accompagnare anche l’avvio, non irragionevole, di una stabilizzazione istituzionale. E proprio le proposte di riforma costituzionale e elettorale hanno occupato la scena, con tratti sempre più marcatamente conflittuali.
Osservo malinconicamente che siamo di fronte ad una occasione perduta. Dopo un’iniziale fiammata polemica, si era assistito ad un germogliare di riflessioni critiche che si trasformavano in proposte variamente interessanti, che avrebbero consentito di traghettare l’impresa di riforma al di là della contingenza e delle strumentalizzazioni, con risultati innovativi, mettendo a punto un modello nel quale le esigenze di rappresentanza e governabilità avrebbero potuto incontrarsi senza la pretesa di sopraffarsi reciprocamente.
È mancata la cultura costituzionale indispensabile per una operazione così ambiziosa? Ha preso il sopravvento un certo politicismo, ha prevalso la volontà di trasformare una operazione così delicata in una prova di forza destinata a mostrare a tutti in quali mani fosse ormai il potere? La realtà è che sono sempre più nettamente emersi, nelle proposte e nei comportamenti, atteggiamenti sostanzialmente conservatori dal punto di vista culturale e aggressivi dal punto di vista politico, che hanno ritenuto praticabile solo la vecchia strada dell’accentramento del potere e della sua liberazione da controlli effettivi.
Il risultato è stato quello, prevedibile, di polemiche senza confini. La discussione pubblica è stata rifiutata dal governo e questo ha portato a ovvie e dure contrapposizioni, che hanno poi aperto la strada a negoziazioni varie. In modo contorto, si è così finito con il riconoscere che molte critiche erano fondate anche perché, con il passare delle settimane, l’area dei critici si è allargata ben al di là di quelli che erano stati considerati oppositori pregiudiziali. Con parole più guardinghe, sono state dette cose assai vicine a quelle di chi, all’origine, aveva cercato di mettere in guardia contro i rischi della strada che si stava imboccando. E questo induce ad un’altra considerazione malinconica. Solo se si alza la voce, si può riuscire per un momento a superare il voluto frastuono mediatico, a destare una qualche attenzione anche presso i distratti o i rassegnati. Per questo si paga un prezzo, che tuttavia non è troppo alto se riesce a richiamare l’attenzione sul fatto che non stiamo parlando di una qualsiasi legge di riforma, ma del cambiamento della Costituzione.
Ora si discute nella bagarre, e i fraintendimenti continuano. Il dibattito sul modo in cui si vuole uscire dal bicameralismo perfetto è inquinato dalla volontà di considerare la riforma del Senato come una partita a sé, un luogo dove piantare la bandierina del vincitore, e non come un tassello del complessivo sistema costituzionale e dei suoi necessari equilibri.
Si gioca con i rinvii, si fa balenare la possibilità di concessioni quando riprenderà l’esame della riforma elettorale, del famigerato Italicum. Di nuovo non si vuole intendere quale sia la sostanza del problema. La struttura e le competenze del futuro Senato non possono essere legate a un effetto annuncio che fa leva sull’antipolitica, sulla sbrigativa affermazione che si taglieranno spese e si manderanno a casa dei fannulloni. Dipendono strettamente dal modo in cui sarà concretamente configurata la Camera dei deputati. Se questo sarà il luogo dove si manifesterà soltanto una esasperata logica maggioritaria, dovrebbe essere ovvio ritenere che saranno necessari contrappesi, da cercare anche nella configurazione di un Senato comunque uscito dalla logica del bicameralismo paritario. Non si fa una riforma tagliando a fette la Costituzione.
Peraltro, le concessioni prospettate per la legge elettorale non sembrano intaccarne la logica profonda. È bene allora, rifare un piccolo promemoria su quale sarebbe la forma di Stato che risulterebbe dall’Italicum. Rimarrebbe sostanzialmente la riduzione della rappresentanza dei cittadini, dunque il punto che ha indotto la Corte costituzionale a dichiarare illegittimo il Porcellum. Di conseguenza, le elezioni sarebbero tutte concentrate sulla sola finalità di individuare il governo, trasformando la democrazia rappresentativa in democrazia d’investitura e, visto l’accumularsi dei meccanismi maggioritari, rendendo la Camera una semplice appendice del governo, al quale verrebbe attribuito anche il potere di porre fine a qualsiasi dibattito scomodo con quella particolare ghigliottina rappresentata dall’imposizione di un termine per l’approvazione di una legge. E questa signoria del governo sulla Camera sarebbe accompagnata dal fatto che la maggioranza può impadronirsi delle massime istituzioni di garanzia, la Presidenza della Repubblica e la Corte costituzionale, dispone dei numeri necessari per le riforme costituzionali e per incidere sui diritti fondamentali.
Forse cadrà l’inammissibile soglia dell’8% come condizione per l’accesso alla Camera di un singolo partito e v’è da augurarsi che dalla riforma del Senato scompaia l’innalzamento del numero delle firme per i referendum e le leggi d’iniziativa popolare. Tutte proposte, però, assai indicative dell’ispirazione del governo, evidentemente conservatrice, visto che si vuole precludere l’innovazione politica affidata a partiti nuovi e all’iniziativa diretta dei cittadini. E che tradiscono, piaccia o non piaccia la parola, una curvatura autoritaria che, come sanno quelli che maneggiano con qualche consapevolezza le categorie della scienza politica, non è l’evocazione delle dittature, ma il tratto che caratterizza una forma di Governo nella quale deperiscono i controlli istituzionali e si restringono gli spazi per azioni dirette dei cittadini non affidate a logiche plebiscitarie.
Ripeto queste cose nella speranza che le discussioni in corso riescano ad attenuare alcuni di questi effetti negativi. So bene che più d’uno si dichiara stanco di queste discussioni, in cui ritrova echi già noti. Non v’è nulla di più vecchio dell’ostinazione nel difendere una difficile idea di democrazia, che peraltro oggi non gode di buona salute. Ma qualcuno deve pur farlo.

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