venerdì 31 agosto 2012

La corsa alla Pesidenza della Regione Siciliana è un affare per soli uomini?

La corsa per la presidenza alla Regione Sciiana sembra sempre di più un affare per soli uomini. E' incredibile: nessuno fa un solo nome di donna!!!
Le donne Siciliane e gli uomini lungimiranti non hanno niente da dire su questo???
Non pensate che è un fatto gravissimo che tutti i candidati ignorano assoutamente questo grande particolare???
Continuando così avremo l'assemblea ancora una volta occupata da soli uomini ... un fatto che ritengo gravissimo!!!!

domenica 26 agosto 2012

Amato: “Il mio vitalizio? In beneficenza. E Monti faccia una patrimoniale”

"E' la tassa più equa che si può fare", spiega l'ex presidente del consiglio, oggi super consulente del governo "tecnico" per la riforma dei partiti, dalla Festa Pd di Reggio. Poi rincara la dose: "Assurdo che i rimborsi continuino ad arrivare a partiti morti, meglio darli in custodia alle Tesorerie e poi prelevarli quando servono”

amato_giuliano_er
“Io ho parlato con chi stava lavorando. Ma mi sono volutamente tenuto in disparte: non volevo influenzare il Parlamento, in una materia che è di sua stretta competenza”.  Un super consulente governativo per una materia che non compete all’esecutivo suona come una contraddizione in termini.  E in effetti il dottor Sottile dopo mesi di latitanza – almeno ufficiale – le carte le scopre. Fuori tempo massimo, però, quando ormai ha poco da perdere, sembrerebbe,  visto che forse non ci crede neanche lui al fatto che i suoi dossier possano essere le basi per una riforma: “Li darò all’Istituto per la documentazione e gli studi legislativi”. E ribadisce in maniera netta alcune delle sue convinzioni, anche criticando la legge che è stata fatta: “Il controllo doveva essere dato alla Corte dei Conti e non a un gruppo collegiale tutto da fare”, tanto per cominciare. E poi: “Chiamare rimborsi dei finanziamenti  è un imbroglio”.  E dunque, “si devono trovare delle forme di autofinanziamento  nelle fasi non elettorali”. Amato poi chiarisce: “E’ assurdo che i rimborsi continuino ad arrivare ai partiti morti”. Mentre a proposito delle questioni che hanno riguardato i tesorieri dice: “L’ideale sarebbe dare i soldi dei partiti in custodia alle Tesorerie. E poi prelevarli quando servono”.
Con tono gentile e sommesso anche dal palco, intervistato da Stefano Menichini, non le manda a dire. E soprattutto prova a cambiare alcuni dati della sua immagine:   vive ”solo” della sua pensione di ex professore universitario ”mediata” con quella di presidente dell’Antitrust: 11.500 euro al mese netti e basta, malgrado la molteplicita’ di incarichi di governo e le cinque legislature da parlamentare ricoperte nella sua carriera politica. Non ci sta ad essere considerato un membro della casta, mentre il suo nome è uno di quelli che gira di più come futuro presidente della Repubblica? “Non sono un topo nel formaggio, faccio beneficenza, “il vitalizio di cinque legislature da parlamentare lo destino interamente ad attivita’ benefiche”.
Sempre educatamente non risparmia critiche al governo dal quale è rimasto fuori per un soffio: deve lavorare sulla politica industriale e sociale. E poi, avrebbe fatto bene a mettere una patrimoniale, dice rivendicando il prelievo forzoso da lui fatto nel 1992 “la tassa più equa che ho messo”, mica come “tante che finiscono con la u”. E a Bersani dice: “Faccia dei gazebo non solo per votare, ma per far esprimere le persone sui temi”. Un modo come un altro per evitare che “i partiti vengano percepiti come mozzarelle avariate”. Anche se, la politica che si fa con i sondaggi “è infame per la democrazia”. E così, anche Beppe Grillo è sistemato.

Il fantasma di Togliatti divide il Pd. Parisi: “Il partito ‘aperto a tutti’ è finito”

Sull'Unità, lo storico Michele Prospero ricorda il "Migliore" con più luci che ombre e rivendica il suo ruolo di "padre" degli attuali democratici. Ed è subito polemica. L'esponente prodiano replica dando per morto il progetto politico che ha unito Ds e Margherita. E la disputa storica innesca il dibattito, attualissimo, sulla natura dei partiti oggi. Non solo a sinistra

palmiro togliatti_interna nuova
Il fantasma di Palmiro Togliatti torna a dividere il Pd e a movimentare il dibattito politico agostano nell’era della crisi e dello spread. Lo ha evocato sull’Unità lo storico Michele Prospero, in occasione del 48esimo anniversario della morte del “Migliore”, tracciandone un ritratto più di luci che di ombre e concludendo che il partito “sbaglierebbe a rinunciare a questo confronto storico-critico, magari in ossequio a coloro che vorrebbero eliminare il contributo dei comunisti italiani, non solo dal patrimonio culturale dei Democratici di oggi, ma dall’intera storia nazionale”. L’articolo dello storico ha innescato una reazione a catena che arriva a scuotere l’oggi, fino a far dire a un esponente di primo piano del partito, il prodiano ex Margherita Arturo Parisi, che “il tempo del Pd come partito aperto a tutti è finito”. E naturalmente ha spalancato un’autostrada per le immancabili dichiarazioni di Fabrizio Cicchitto, il capogruppo Pdl alla Camera che pure, svezzato decenni orsono nella sinistra socialista, non ha mai manifestato alcun disagio ad accompagnarsi con i nostalgici di Benito Mussolini (e in alcuni casi di Adolf Hitler). “Casini condivide?”, domanda provocatoriamente Cicchitto.
Il punto, ovviamente, è la vicinanza di Togliatti all’Unione sovietica di Stalin. Vicinanza che Prospero non nasconde: “Non che rinunciasse a sfruttare il mito ancora caldo della presa del Palazzo d’Inverno e a rivendicare le gesta della marcia liberatrice dell’esercito rosso”, scrive sull’Unità del 22 agosto. “Ma egli utilizzava il mito di un mondo radicalmente altro come una forma di emozionale coinvolgimento della massa, senza rimanerne prigioniero nel momento della invenzione politica distaccata”. E infatti, secondo lo storico, “l’opzione democratica e pluralista nel leader del Pci (per quanto concerne poi i quadri e i militanti è un’altra faccenda) fu precoce e priva di reticenze”.
Materia ormai da storici, appunto, a parte il dettaglio che un alto dirigente del Pci dell’epoca siede oggi alla presidenza della Repubblica. Giorgio Napolitano entrò nel Comitato centrale nel 1956 proprio grazie all’appoggio di Togliatti. Echi di quegli anni lontanissimi tornano periodicamente quando viene rinfacciato a Napolitano l’appoggio all’invasione sovietica in Ungheria, di cui negli anni successivi il presidente – che poi diventò leader della corrente migliorista, la “destra” del Pci vicina al Psi di Bettino Craxi – ha fatto ampia ammenda.
Nel bicchiere mezzo vuoto e mezzo pieni dei rapporti tra Togliatti e Stalin, Parisi vede quello mezzo vuoto. E sull’Unità del 25 agosto ricorda che già in passato aveva chiesto al segretario Bersani di “riconoscere l’infondatezza di una celebrazione che riconoscesse a Togliatti lo status di progenitore del Pd”. Senza ottenere risposta, che oggi vede nell’articolo di Prospero. Dal quale conclude: “La celebrazione di quest’anno ci dice che il tempo del Pd come partito ‘aperto a tutti’ è finito”. Quindi “è bene che la democrazia torni a riconoscersi come somma di partiti dei quali dei quali sia possibile riconoscere l’organizzazione, la struttura di comando e l’identità a partire dalla propria storia e dalla eredità del passato”.
Così l’apparentemente innocuo 48esimo anniversario della morte di Togliatti fa suonare il de profundis per l’idea fondativa del Pd, per il sistema maggioritario e per le aggregazioni politiche più o meno forzate sorte dalle macerie della Prima repubblica. E apre il dibattito sulla questione, questa attualissima, della natura dei partiti italiani di oggi: figli, salvo poche eccezioni delle ideologie del Novecento, ma catapultati in un mondo totalmente nuovo. Non vale solo per il Pd, basti pensare alla massiccia retorica anticomunista periodicamente riesumata da Berlusconi e dal Pdl, peraltro erede diretto del pentapartito pre-Mani pulite con l’aggiunta dell’Msi a suo tempo sdoganato. La questione è posta nell’ultima puntata (per ora) del dibattito sull’Unità, a firma di Gianni Cuperlo, deputato del Pd e già portavoce di Massimo D’Alema. Che oggi replica a Parisi affermando che “i partiti non si inventano”. Perché “starebbe a dire che si possono immaginare, e modellare come il pongo, aggregazioni anche robuste di donne e uomini, sentimenti e tradizioni, principi, culture, in virtù di uno spirito illuminato. Ma illuminato da chi?”.

Legge-elettorale-cicchitto-terzo-dei-parlamentari-con-liste-bloccate

Legge elettorale, Cicchitto: “Un terzo dei parlamentari con liste bloccate”

Il capogruppo alla Camera del Pdl 'confessa': "I partiti hanno fatto un pessimo uso delle liste bloccate, ma senza di esse una serie di parlamentari di alto livello non sarebbero entrati o non entrerebbero più in Parlamento". E sulla legge elettorale Buttiglione attacca: "E' pronta da prima dell'estate, ma nella pantomima del bipolarismo non si può dire"

cicchitto_interna nuova
Nella prossima legislatura i big dei partiti torneranno tutti a sedere comodamente sugli scranni del Parlamento. Esattamente come è successo con il Porcellum, così accadrà con la nuova legge elettorale, quale che sia. A dirlo, per una volta, non sono i retroscena di palazzo, ma direttamente il capogruppo alla Camera del Pdl, Fabrizio Cicchitto, in una intervista pubblicata sul Mattino: “Un terzo dei parlamentari va scelto dai partiti con i listini bloccati – spiega Cicchitto – certo, delle liste bloccate i partiti hanno fatto pessimo uso, ma senza di essi una serie di parlamentari di alto livello non sarebbero entrati o non entrerebbero più in Parlamento. Serve equilibrio, non demagogia”.
Giù il velo dell’ipocrisia, Cicchitto ‘confessa’: c’è una intera oligarchia politica che non può permettersi di rimanere a casa solo perché gli elettori non la vogliono più vedere. E pazienza se questo permetterà di mettere in Parlamento le Minetti di turno. Per il resto, il capogruppo del Pdl si mostra “cauto” sull’accordo per la legge elettorale. “Il filo del dialogo non si è mai interrotto ma su alcuni punti qualificanti esistono più opzioni: se il premio andrà al primo partito, come chiediamo noi del Pdl, o alla coalizione, come vuole il Pd, e di che entità sarà, se del 10% o del 15%. Poi, preferenze o collegi oppure una soluzione intermedia tra queste due ipotesi”.
Proprio questi sembrano essere, allo stato, i nodi della trattativa tra i partiti. Un filo, stando alle parole del Pd Enrico Letta, sempre sul punto di interrompersi ma tenuto insieme dal duro lavoro di mediazione: “Se non si cambia la legge elettorale ora – ha dichiarato il vice di Bersani –  il prossimo Parlamento sarebbe l’agonia della Seconda Repubblica. Invece, il prossimo Parlamento deve essere l’inizio della Terza Repubblica. E questo può avvenire solo con un Parlamento eletto dai cittadini”.
Dopo l’ottimismo della scorsa settimana – “l’accordo è vicino, a breve l’annuncio” – il numero due del Pd torna a dubitare per invocare la responsabilità del trio ABC: ”Serve la buona volontà dei partiti maggiori a seguire l’appello di Napolitano. Lo ha detto con forza in questi mesi, richiamando il tema dell’interesse generale. La nuova legge elettorale è per il bene del Paese e serve a recuperare credibilità politica. Ci siamo vicini, ma ognuno deve fare la sua parte”.
A gelare la retorica di Letta di fronte ai microfoni di Tgcom 24, è però intervenuto un altro ex democristiano, l’ex ministro dei Beni Culturali Rocco Buttiglione. Ieri compagno di partito, poi nemico, oggi e domani quasi sicuramente alleato dello stesso Partito democratico, Buttiglione ha buttato acqua sul sacro fuoco della responsabilità politica che da mesi viene continuamente invocato ogni volta che si parla della transizione dal Porcellum a una nuova legge.
L’accordo sulla legge elettorale – ha svelato Buttiglione – “è pronto da prima dell’estate”, ma non si dice perché in Italia “è ancora in piedi la pantomima del bipolarismo, un sistema per cui gli accordi non si fanno o, se si fanno, bisogna disprezzarli o attaccarli con odio. Una mentalità malata da cui bisogna uscire”. In un’intervista al Mattino, il presidente dell’Udc ha descritto nei dettagli – molti dei quali a dire il vero noti da giorni – i contorni dell’accordo:  “Il sistema elettorale sarà di base proporzionale – spiega Buttiglione – con uno sbarramento nazionale al 5% e all’8% in tre circoscrizioni, premio al primo partito, un terzo di liste bloccate e due terzi di preferenze o collegi”.
Buttiglione ha anche escluso l’ipotesi di elezioni anticipate, “a meno che non venga sconfitta in Europa la linea Monti-Draghi-Hollande-Merkel”. Quanto alla grande coalizione, “molto dipende dal sistema elettorale. Se passa quello di cui abbiamo parlato, che favorisce le aggregazioni ma non le impone, a meno che non vinca nettamente un’alleanza di centrodestra o una di centrosinistra, vorrà dire che è il popolo sovrano a volerla”, dichiara. “Molti che nel loro cuore la vogliono, nel Pd come nel Pdl, ma a parole la negano, sanno che è la sola soluzione possibile. Solo con il Porcellum o con un Super-Porcellum si potrebbe evitarla”.
Con questo sistema, quindi, l’unico nodo resta quello dell’entità del premio da assegnare al primo partito. Il Pd, al momento confortato dai sondaggi che lo vedono attorno al 25-27%, in vantaggio netto sul Pdl, spinge per ottenere un premio del 15% (o più) che garantirebbe controllo su una eventuale coalizione con Udc e Sel e la speranza di avere una maggioranza. Il Pdl vorrebbe mantenerlo più basso, tra il dieci e il 12%, rendendo in questo modo indispensabile un continuo accordarsi delle forze politiche. Con buona pace dei proclami di Alfano - “Silvio vuole vincere e governare” – buoni per dare una idea di competizione.
Del resto, i numeri – che i partiti conoscono a memoria – dicono che con l’attuale grado di sfiducia nei confronti della classe politica, con il nuovo sistema “alla greca” formare una maggioranza in parlamento sarebbe impresa ardua. Il Pd – dicono gli ultimi dati dell’Istituito Cattaneo pubblicati dalla Stampa – ci riuscirebbe solo con una alleanza con Sel e Udc. Solo in questo modo si garantirebbe una quarantina di seggi di vantaggio sull’opposizione. Ma questo renderebbe indispensabile una pace permanente tra centro e sinistra che al momento non si vede. Il centrodestra, di contro, ha tutto da guadagnare da un premio più basso – con buona pace della governabilità – che agirebbe da richiamo della sirena per riportare l’Udc verso il centrodestra. Di certo, numeri alla mano, nessun partito potrà cavarsela da solo.

mercoledì 22 agosto 2012

Politici in tv a pagamento, la procura di Bologna apre un’inchiesta – Il Fatto Quotidiano

Politici in tv a pagamento, la procura di Bologna apre un’inchiesta – Il Fatto Quotidiano

Casta in formato regionale: Formigoni e Vendola paperoni. Il piccolo Molise è 6°

 Sei in: Il Fatto Quotidiano > Politica & Palazzo >

Il più "fortunato" tra i presidenti è il governatore della Lombardia, quello meno Enrico Rossi (Toscana). E' il quotidiano "Libero" che fa i conti in tasca agli amministratori regionali pubblicando una tabella con gli stipendi di presidenti, assessori e consiglieri. La Toscana ultima in assoluto nei guadagni dei rappresentanti locali e quindi la più virtuosa

E’ sempre casta, nonostante  i tagli. Anche se a misura “regionale”. Stipendi, indenizzi, rimborsi e anche quello che per gli altri lavoratori è il Tfr, il trattamento di fine rapporto. Il più “fortunato” tra i presidenti regionali è Roberto Formigoni, governatore ventennale della Lombardia, quello meno Enrico Rossi, presidente della Toscana. Il primo, come presidente della giunta, guadagna 14.767,70 euro, il secondo 7.544,78. E’ il quotidiano “Libero” che fa i conti in tasca agli amministratori regionali pubblicando una tabella con gli stipendi di presidenti, assessori e consiglieri. E gli assegni di fine mandato possano arrivare fino a 80 mila euro. I dati sono ufficiali perché sono estrapolati dall’ultimo rapporto della Conferenza dei Presidenti delle assemblee legislative delle Regioni e delle Province autonome. Senza dimenticare i rimborsi che in alcune Regioni valgono il doppio dell’indennità di funzione. Un esempio per tutti è proprio quello della Lombardia con il presidente della giunta che può contare su un’indennità netta di 5.400,78 da moltiplicare per dodici mensilità. A questa indennità vanno sommati tuttavia i rimborsi che possono variare da un minimo di 5.866,92 fino ad un massimo di 9.366,92 euro. In altre Regioni, come la Puglia, dove il presidente Nichi Vendola guadagna 14.595,73 (poco meno di 200 euro rispetto a Formigoni) se le indennità di funzione sono meno eclatanti (4.971,54 euro al mese per 12 mensilità), la forchetta dei rimborsi può variare dai 7.744,11 ai 9.624,19 euro al mese. Il rimborso massimo per Enrico Rossi invece non arriva a 3 mila euro. Regione la Toscana ultima in assoluto nei guadagni dei rappresentanti locali e quindi la più virtuosa rispetto per esempio alla Liguria e a soprattutto il Molise, sesto nella classifica generale degli incassi, ma che conta solo 320.360 residenti.
Dopo i presidenti di giunta di Lombardia e Puglia nella classifica dei più pagati arrivano i presidenti di Sicilia (14.193,25 euro), Piemonte (12.451,48), Lazio (11.753,11), Molise (11.124,90), Calabria (11.109,77), Liguria (10.841,25), Campania (10.775), Sardegna (10.571,01), Veneto (9.891,93), Valle d’Aosta (9.751,38), Trentino Alto Adige (9.698,05), Basilicata (9.221,07), Marche (8.620,30), Abruzzo (8.615), Friuli (8.063), Emilia-Romagna (7.768,16), Umbria (7.603,52), Toscana (7.544,78). Gli stessi importi del presidenti di giunta vengono incassati dai presidenti del Consiglio regionali. Gli stipendi dei vice, in entrambi i ruoli, hanno uno scarto poco inferiore a quelli dei numeri uno, dai 1000 ai 4 mila euro circa.
Stipendi d’oro anche per chi ha la responsabilità di un assessorato. Gli assessori più pagati sono quelli piemontesi con uno stipendi pari a 12.069,28, a seguire i pugliesi con 11.865,14, e poi quelli lombardi, naturalmente i molisani e quindi calabresi e veneti che intascano 10 mila euro circa al mese. I più “poveri” ancora i toscani i cui assessori guadagnano 6.620,51, seguiti a ruota da quelli del Friuli, Marche e Abruzzo. Una classffica meno significativa di quella dei numeri uno perché non sono registrati in lista gli importi degli assessori siciliani, campani e sardi.  Gli introiti dei presidenti di commissione rispecchiano la classifica generale guidata dalla regione di Formigoni: si va dai 13.266,71 della Lombardia agli 8.242,59 della regione Lazio. Stesse cifre per i capigruppo con il record lombardo a 13.266,71 e i 6.417,28, praticamente la metà, dell’Emilia-Romagna anche se non ci sono i dati di Sicilia, Molise, Campania, Trentino, Valle d’Aosta, Marche. Ci sono i consiglieri: si va dai  5.666,78 degli emiliani romagnoli, ai 12.666,71 dei lombardi. Sopra i 10 mila euro per quelli di Puglia, Sicilia, Piemonte, Molise e Veneto. Tranne quelli dell’Emilia Romagna – con 5.666,78 euro – tutti guadagnano più di 6 mila euro.
Le cifre vanno anche lette considerando il numero degli abitanti; la Lombardia ha quasi 10 milioni di abitanti, ma la Sicilia poco più di 5 e la Puglia più di 4. Il Piemonte non arriva a 4 milioni e mezzo, mentre la virtuosa Toscana registra 3.730.10 abitanti. C’è poi il caso Molise, sesto classificato, seguito a ruota da Calabria, settima, che supera di poco i 2 milioni di abitanti e della la Liguria, ottava, che segna 1.615.441.  

IL SEGRETO DI SILVIO



Pubblicato il 19 agosto 2012
 
 
Chi diede al Cavaliere i fondi per Milano 2? La chiave del mistero in un baule. Nelle mani dei pm fiorentini.
IL SEGRETO DI SILVIO
di Paolo Biondani, Maria Elena Scandaliato e Andrea Sceresini
Da dove sono arrivati tutti quei soldi? Nanni Moretti, nel film “Il Caimano”, simboleggia in una sequenza beffarda decenni di dubbi sull’origine delle fortune di Silvio Berlusconi: una valigia di denaro che cade dal cielo sulla scrivania del costruttore di Milano 2. Oggi il Cavaliere di Arcore sembra perseguitato da un’altra valigia. Piena di carte di trent’anni fa. Un baule di documenti ingialliti dal tempo, conservati da un’eminenza grigia della Dc milanese. Che ora giura di aver obbedito all’ordine di consegnare tutto ai magistrati, affinché facciano luce sui misteriosi canali finanziari che, tra banche italiane e anonime fiduciarie svizzere, avevano sostenuto le prime scalate di Berlusconi al potere economico.
Ezio Cartotto, 69 anni compiuti da poco, è un pensionato della politica che vanta una memoria di ferro. Negli anni Novanta il suo nome era spuntato dal nulla in mezzo alle inchieste che portarono alla condanna definitiva di Marcello Dell’Utri per falso in bilancio: il braccio destro di Berlusconi lo aveva assoldato in gran segreto come super-consulente per la creazione di Forza Italia (nome in codice, “Operazione Botticelli”) pagandolo con fondi neri e fatture false. Alto, volto rotondo, occhiali spessi, calvizie incipiente, oggi Cartotto accetta di spiegare a “l’Espresso” come è nato il suo rapporto con Berlusconi. E quali segreti potrebbe nascondere quel suo «baule di carte» scoperto dai pm di Firenze che lo hanno interrogato e intercettato fino all’inizio di quest’anno.
La prima rivelazione, la più prevedibile, è che Dell’Utri non si affidò a un estraneo: Cartotto aveva conosciuto Berlusconi quarant’anni fa e conquistato la sua confidenza «aiutandolo a superare un gravissimo problema urbanistico che minacciava di bloccare Milano 2». Correva l’anno 1972. «Con la nascita delle Regioni, in Lombardia cambiavano tutte le regole edilizie. Berlusconi venne a trovarmi perché temeva il fallimento: l’Edilnord rischiava di non poter più costruire». Fedelissimo del più volte ministro Giovanni Marcora, all’epoca Cartotto era responsabile per gli enti locali della Dc milanese. «In provincia amministravamo 170 comuni, a Segrate avevamo l’assessore all’urbanistica e poi controllavamo il Pim, il Piano intercomunale milanese». E allora cosa succede? «Berlusconi comincia a telefonarmi, mi segue in macchina, viene a trovarmi a casa… Un tormento. Non ho mai conosciuto nessun altro dotato di una così grande capacità di vendere se stesso. Alla fine mi persuade a dargli una mano». Come? «Il problema fu risolto dai tre direttori del Pim: oltre al nostro della Dc, gli presentai l’architetto Silvano Larini per il Psi, mentre per il Pci c’era Epifanio Li Calzi». Due nomi destinati a entrare nella storia di Tangentopoli. Risultato? «Via libera ai progetti superiori a mezzo milione di metri cubi, come Milano 2».
Da allora e fino alla nascita di Forza Italia, Cartotto stringe un rapporto sempre più stretto con il costruttore emergente. Raccoglie sfoghi e confidenze. E risolve problemi. Grazie alla politica. «Morirò democristiano», rivendica ancor oggi, rievocando gli anni d’oro in cui conquistava entrature potenti al vertice dello scudo crociato e nel mondo degli affari che dipendevano dal partito. Ed è proprio incrociando le fonti più riservate con le indiscrezioni carpite al Cavaliere, che Cartotto sostiene di aver capito come fu finanziata la sua ascesa: «Ha ottenuto i primi capitali grazie alla P2 e ad Andreotti. Ed erano capitali maleodoranti». Parole grosse, che Cartotto pronuncia con calma olimpica, nella sua piccola casa piena di libri, con vista sui capannoni dell’hinterland a nord di Milano, seduto in salotto accanto al cane accovacciato, tra tavolini ingombri di carte, lamentandosi degli acciacchi dell’età. Già nel ’96 aveva raccontato ai magistrati le rivelazioni che gli avrebbe fatto Filippo Alberto Rapisarda: presunti pacchi di soldi «spediti da Palermo negli anni ’70 e divisi con Dell’Utri» proprio da quel chiacchierato finanziere siciliano, destinato nel ’94 a ospitare il primo club di Forza Italia a Milano. Parole rimaste senza riscontri e cadute nel vuoto. Ora Cartotto sostiene di avere documenti inediti. E propone un racconto che parte dalla Banca Rasini, dove lavorava il padre di Berlusconi, passa per la loggia di Licio Gelli e arriva all’allora vertice del Monte dei Paschi di Siena, facendo tappa tra la Svizzera e un istituto di credito italo-israeliano. Che i primi prestiti a Berlusconi li avesse concessi la Banca Rasini, lo ha confermato lo stesso Cavaliere, ma il resto è tutto da provare: quali indizi può offrire, signor Cartotto? «La banca fondata dai nobili Rasini fu acquistata nei primi anni ’70, tra lo stupore generale, da un certo Giuseppe Azzaretto, un affarista di Misilmeri, periferia di Palermo. Un commercialista milanese di altissimo livello, G. R., amico di Marcora e molto addentro alla Rasini, mi disse subito che quell’istituto mono-sportello era “la chiave per il passaggio di capitali maleodoranti”. Un’altra mia fonte fu Luigi Franconi, morto qualche anno fa. E la conferma su Andreotti l’ho avuta da un incontro».
Alt. La Banca Rasini fu effettivamente al centro dei primi processi per mafia a Milano, che fecero scoprire addirittura conti intestati ai boss di Cosa nostra. Ma ora Cartotto chiama in causa Andreotti. Sta dicendo che era il sette volte premier a suggerire dove investire i capitali mafiosi nascosti in quella piccola banca milanese? «Ufficialmente la Rasini era di Azzaretto padre e di suo figlio Dario, ma in realtà era controllata da Andreotti. Era la sua banca personale. C’è un riscontro che nessuno sa: Andreotti andava in vacanza tutti gli anni nella villa degli Azzaretto in Costa Azzurra. Di questo ho la certezza. Per verificare le mie fonti, ho fatto in modo che Sergio, l’altro figlio di Azzaretto, incontrasse a Roma il nipote di Andreotti, Luca Danese. Si sono visti davanti a me. Baci e abbracci. Si dicevano: “Ti ricordi quando giocavamo insieme…”. Detto questo, basta ragionare: la Cassazione, con la sentenza di prescrizione, ha stabilito che fino al 1980 Andreotti è stato il referente politico dei più ricchi boss di Cosa nostra. E a quel punto chi ha comprato, o si è intestato, la Rasini? Nino Rovelli, l’industriale legatissimo ad Andreotti, ma anche all’avvocato Cesare Previti. Come vedete, tutto torna».
Come logica politica, forse, ma la verità storica richiede certezze. Che Cartotto è convintissimo di avere: «Negli stessi anni Berlusconi aveva una corsia preferenzialissima al Monte dei Paschi. Ricordo che andava spesso a Siena, anche una volta alla settimana. E otteneva finanziamenti enormi. Infatti all’epoca la banca era diretta da Giovanni Cresti, che nell’81 risultò iscritto alla loggia P2 come Berlusconi». Tessera 521, si leggeva sulla lista, ma il banchiere smentì tutto. Cartotto invece insiste: «Era uno dei più importanti dopo Gelli. Secondo le mie fonti era il numero 3». Un fatto certo è che la commissione Anselmi inserì Berlusconi tra gli imprenditori che, grazie alla P2, ottennero massicci finanziamenti proprio a Siena oltre ogni merito creditizio. Ma Cartotto, che cita nomi e confidenze di vari amici iscritti alla loggia, si spinge molto più in là: «Il mondo di Andreotti e la P2 erano sovrapponibili». In che senso? «Andreotti era il dominus politico della P2. Secondo molti, il vero capo sarebbe stato lui».
Tra ricordi, confidenze, deduzioni e convinzioni personali, Cartotto parla anche di carte segrete che proverebbero fatti certi. E qui spunta il baule di documenti che, non a caso, gli sono stati richiesti dai magistrati di Firenze. «Riguardano un aumento di capitale per Milano 2, che avevo seguito personalmente. Era il 1973. Allora Berlusconi figurava come dipendente dell’Edilnord, che era una società di persone controllata da finanziarie svizzere intestate a una domestica o a un fiduciario. Era chiaro che erano tutte balle e che in realtà l’Edilnord era sua. Quindi Berlusconi mi disse che aveva bisogno di creare una più presentabile società di capitali. Ma all’epoca era proibito mandare i soldi all’estero. Allora gli feci un favore. Lo chiesi a un mio caro amico democristiano, l’avvocato Ferruccio Ferrari, che era l’amministratore della Cefin, la società che finanziava le nostre cooperative bianche, poi fallita. Questa Cefin aveva una bella quota, se non ricordo male il 30 per cento, della Banca italo israeliana, un istituto con un solo sportello a Milano. Attraverso questa banca abbiamo fornito in Svizzera a Berlusconi il denaro per l’aumento di capitale. Ferrari era uno specialista in queste operazioni. E alla fine mi disse: “Tutto a posto, Berlusconi ci ha restituito i soldi”. Insomma, le società erano svizzere, ma i soldi erano tutti italiani. E la reale provenienza l’abbiamo già vista: capitali maleodoranti».
E lei per tutti questi anni ha tenuto i documenti in un baule? «Sì, in una soffitta». E perché? «Per poter dimostrare che Berlusconi ha raccontato bugie fin dall’inizio». Eppure lei è stato suo consulente per vent’anni, salvo litigare nel ’96, dopo aver testimoniato su Dell’Utri. «Berlusconi è un uomo molto intelligente e seduttivo. Ricordo quando riuscì a far comprare da un ente pubblico gli appartamenti dell’Edilnord di Brugherio che erano rimasti invenduti. Il presidente era un ottimo burocrate che io conoscevo bene, Vito Mancuso, già commissario all’Eur sotto il fascismo, poi legato ad Andreotti. Berlusconi lo tempestava di richieste, ma lui non sentiva ragioni. Un giorno il dottor Mancuso prese un treno per Milano e si trovò da solo con lui. Berlusconi aveva comprato tutti i biglietti. Alla fine Mancuso si arrese. Berlusconi è davvero straordinario nel fare i suoi interessi». E perché poi avete litigato? «Al processo di Palermo avevo l’obbligo di dire la verità, quindi rivelai ai giudici che Dell’Utri, negli anni ’70, mi aveva chiesto voti per Vito Ciancimino. Dell’Utri si arrabbiò e si lamentò con Berlusconi. E io feci l’errore di rispondere al Cavaliere che solo Dell’Utri poteva affidare Forza Italia a Milano a uno come Rapisarda». Il sindaco mafioso Ciancimino e il bancarottiere Rapisarda: proprio i rapporti pericolosi al centro del processo-bis contro Dell’Utri a Palermo. Ai giudici l’arduo verdetto.

venerdì 10 agosto 2012

Lettera aperta a Rosario Crocetta!

 
10.08.2012 ..
 Caro Rosario, tramontata la possibilità di poterTi incontrare, visto che mi è stato negato l’appuntamento chiesto, e di dirTi quello che penso guardandoTi negli occhi, non mi resta che rivolgermi a Te con questa lettera aperta, perché voglio che tutti e non solo Tu conoscano i motivi de mio dissenso totale su questa svolta a 360 gradi  che hai compiuto, senza prima informare e confrontarti con chi ti ha sostenuto fin dal primo momento mettendoci la faccia, come ho fatto io.
Già solo questo la dice lunga su cosa intendi per partecipazione , democrazia e rispetto delle persone e, mi spiace dirlo, non è davvero coincidente con il mio pensiero, così come non lo è l’idea del leader carismatico che i tuoi collaboratori portano avanti con cieca e spasmodica insistenza.
Purtroppo per loro non è un di novello berlusconi quello di cui ha bisogno la Sicilia, tutt’altro.
Ti ho dato fiducia da subito, mi sono fidata delle testimonianze autorevoli del Proc. Grasso prima e del Dott. Morici dopo e della Tua storia di sindaco di Gela, che ha combattuto contro la mafia a viso aperto.
Ho creduto nella Tua voglia autentica di cambiare radicalmente la Sicilia, anche se non ho mai condiviso lo slogan inappropriato circa la rivoluzione già cominciata, e come vediamo, purtroppo, già miseramente infranto.
Certo mi sono illusa veramente che qualcosa potesse cambiare dopo il Tuo intervento a Palazzo Fatta, anche se molti dubbi sollevava la presenza silenziosa di certi tuoi compagni in sala, ma la speranza autentica e disperata che c’è in me ed in moltissimi/e cittadine/i di cambiare questa martoriata terra ha avuto il sopravvento ed ho continuato a lavorare per darti sostegno.
Cosa, ovviamente, non facile, perché molti non hanno mai condiviso la tua scelta di essere al contempo un dirigente del PD e leader della società civile, che, a Tuo dire, ti ha incoraggiato e proposto di scendere in campo.
Ho fatto leva su questo e sulla Tua storia per convincere ed in molti casi ci sono riuscita, soprattutto per la fiducia che molti/e hanno in me.
Per tutto questo oggi la tua scelta solitaria la sto vivendo come un autentico tradimento e  di più perché si consuma a nemmeno due giorni dopo avere proclamato solennemente e pubblicamente che non ti saresti mai alleato con nessuno: due giorni  hai già sottoscritto l’accordo con l’UDC, con quel D’Alia che fino a pochi giorni prima avevi attaccato e accusato  pubblicamente dal tuo gruppo. Mi pare davvero troppo!
Per me, per quanti la pensano come me,  non siamo pochi, è stata un’autentica doccia fredda e di più nel sentire la soddisfazione e poi l’appoggio del tuo partito. Una doccia fredda che, come è naturale che sia, ha delle conseguenze immediate.
Io, noi non possiamo continuare ad appoggiare una persona che si allea con un partito come l’UDC, che è quanto di più distante ci possa essere dal nostro sentire, mi dispiace davvero che hai voluto bruciare le tappe di un percorso, che poteva essere vincente se solo avessi avuto la lungimiranza di percorrerlo fino in fondo, senza ascoltare le sirene di chi continua a pensare alla sommatoria dei voti, senza preoccuparsi che la matematica prevede anche la sottrazione, che in questo caso sarà più numerosa dell’addizione, ci puoi contare.
Mi dispiace, hai preferito  scegliere di andare a braccetto con chi è l’artefice del disastro siciliano e dispiace di più sentirti affermare che quel D’Alia ha un programma che è uguale al Tuo. Certo che di miracoli in questa terra si sente parlare tanto, peccato però che di positive conseguenze non si vede mai nulla. Insomma il Gattopardo la fa sempre da padrone!
Niente di nuovo sotto il sole, quindi, tutto vecchio, anzi vecchissimo con i soliti noti alla ricerca spasmodica di potere e poltrone, che non si danno la minima preoccupazione per quello che sta avvenendo intorno, per i tanti drammi che si sanno consumando nel nostro Paese.
Continua  a ripetersi il solito copione senza però tenere conto che i siciliani e gli Italiani non ci stiamo più!!!!!
E’ inutile dire che non è più possibile accordarti la fiducia, che generosamente ti avevo , avevamo concesso, soprattutto le donne, perché sappiamo perfettamente che con partiti maschilisti che ti sostengono non c’è davvero speranza che possa cambiare qualcosa e che possano attuarsi le pari opportunità.
Ma c’è una cosa su tutte che non posso perdonare: la strumentalizzazione della mia persona, su questo proprio non posso sorvolare. Mi spiace!
Nella Toscano
Pres. Ass.ne TDC

martedì 7 agosto 2012

Mattarella e Puglisi, l'altra Sicilia


IDEE
​ Rigenerare la politica non è partire da un moralismo astratto. Per me, per la tradizione da cui vengo, è riconnettersi alla memoria di chi ha fatto politica nella speranza di cambiare. Infatti troppo forte è stata la cesura con il nostro passato: l’impoverimento della politica è fatto proprio dall’oblio, mentre siamo appiattiti sul presentismo della cronaca. Abbiamo troppo dimenticato.
In questo quadro, la memoria di Piersanti Mattarella è stata troppo dimenticata, nonostante siano passati solo trent’anni dalla sua morte. Si colloca in un altro mondo politico, in una Sicilia così particolare, nel confronto con Cosa nostra. Ma non di mafie vorrei parlare, bensì di una politica che si rigeneri partendo dall’esempio. Esempio non è parola retorica o moralistica, ma quella catena di umanità a cui ci si lega, che costituisce un saldo orientamento verso il futuro. La morte di Mattarella mette in rilievo il valore della sua politica e dell’essere politico. Non sarebbe morto in questo modo se non ci fosse stata una radice particolarmente preziosa nel suo essere politico, nascosta nel pudore.

Piersanti Mattarella è stato assassinato per la sua politica. La sua morte, cioè, getta luce sulla sua politica, sulla pericolosità della sua politica per la mafia.
Sì, sembra che siano passati tanti decenni, ma solo trent’anni. Eppure si avverte, proprio oggi, in questa delicata transizione, in questa crisi economica che non cessa, il bisogno di uomini e di donne saldi come lui. È l’ora che uomini di questo tipo ritornino, ritornino alla politica. Perché questi uomini e queste donne ci sono. Sono ancora aperte le fonti a cui si sono abbeverati.
Si vede in Piersanti un coraggio personale che viene dalla fede - stava andando a Messa quando fu ucciso -, ma anche la solidità di una cultura politica e umanistica, giuridica, che lo portava lontano dalle furberie dell’azione e da una concezione privatistica dell’interesse personale. Non si dovrebbero usare toni alti con Mattarella, anche per la discrezione del suo parlare e quella della sua famiglia. Ma il suo è un caso di martirio di un politico. Certo non un martirio come quello di don Pino Puglisi, colpito per la sua attività religiosa e pastorale nel quartiere di Brancaccio. Ma credo che bisogna avere il coraggio di usare questa espressione. Il martire è colui che non abbandona il suo posto, il suo servizio, anche quando dinnanzi a lui si profila la minaccia della morte

In questo senso, l’idea di martirio - espressa pudicamente per un uomo come Mattarella - mi ha fatto pensare ad un’altra figura, quella di Pino Puglisi, della cui beatificazione è stata data recente notizia. Siamo, nel caso del prete di Brancaccio, in un altro periodo, ucciso tredici anni dopo, sempre di fronte a Cosa nostra pur in un’altra stagione. Puglisi non è un borghese come Mattarella. Sono però - non lo si dimentichi - due figli del Concilio Vaticano II, l’uno nato nel 1937 e l’altro nel 1935, rinnovatisi alla luce del messaggio conciliare.
Puglisi è nato ragazzo di Brancaccio che avrebbe potuto divenire un reclutato dalla mafia. Eppure percorre un’altra strada e ritorna parroco nel suo quartiere. Don Pino, ucciso, quando sorgeva la Seconda Repubblica, mostra che in Sicilia, in Italia, la testimonianza cristiana sia stata sempre una fonte a cui abbeverarsi per vivere una vita umana, al servizio degli altri, in onestà.

Stabilire un legame tra Puglisi, il prete, e Mattarella, il politico laico, può sembrare forzato. Li unisce Palermo, la lotta alla mafia, la morte violenta; ma diverse erano le loro azioni, le loro condizioni, la qualità del loro impegno. Puglisi mostra che le sorgenti cristiane, a cui Mattarella stessa con tanti altri si era abbeverato, non si sono mai seccate e non sono secche. Sono sorgenti di umanità. In entrambi, con funzioni diverse, tra Puglisi e Mattarella c’è un terreno cristiano che fa germinare la speranza: si può cambiare il mondo, si può cambiare la Sicilia, si può cambiare un quartiere di Palermo. Mattarella e Puglisi rappresentano due storie diverse, combattono la mafia con strumenti diversi, in quadranti diversi. Ma c’è una forza di speranza nella loro azione, che germina dal terreno cristiano. L’uno è un modello di politico ispirato dalla fede, l’altro è un prete: entrambi manifestano la speranza che il mondo, pur quando sembra impossibile, si può cambiare. Ma per cambiarlo, sembrano partire da sé: da una vita intensa, profonda, dedita, che non pone limiti al servizio, nemmeno quello della salvezza della propria esistenza.
Puglisi è morto a cinquantasei anni nel giorno del suo compleanno. Mattarella a quarantaquattro, pagando di persona e indicando - in modi diversi - la via per un mondo nuovo. Restano sorgenti a cui abbeverarsi per chi vuole oggi sperare in un futuro dell’Italia. 

Andrea Riccardi