giovedì 23 gennaio 2014

Renzi e Berlusconi: la democrazia ridotta a farsa


di Angelo d’Orsi
Il re è nudo. Con le sue ultime iniziative, e le comunicazioni ad esse relative, Matteo Renzi si disvela, anche agli occhi annebbiati di quanti avevano voluto dargli fiducia: l'incontro con il pregiudicato e condannato e pluri-inquisito Berlusconi, ormai giuridicamente esterno al Parlamento, e in procinto di essere assegnato ai servizi sociali come sostituto della galera (per aver superato i 70 anni di età) era un dato inquietante di per sé.

L’avere poi invitato l’uomo più corrotto dell’Italia d’oggi, e insieme il più grande corruttore della storia patria, alla sede del Partito Democratico (erede del PCI, non dimentichiamo, malgrado gli innesti democristiani e di qualche frammento laico e socialista), aggiungeva la ciliegia che mancava alla torta. I crepitii delle lampade al quarzo dei fotografi, con intervistatori pronti a ghermire una dichiarazione o un lacerto di frase scambiata dai leader e i loro accompagnatori, sottolineavano l’importanza del fatto, trasformato subito in evento: mediatico, dunque politico. Ed era un primo risultato utile per Berlusconi. E il popolo di sinistra incassa. Compresi i tre-milioni-di-votanti ai quali Renzi si aggrappa, come Berlusconi ripete il conteggio dei propri nove milioni, scambiando l’uno e l’altro i voti per consenso (alle “primarie” poi! Dove bastavano i due euro, a chicchessia, compresi i militanti di Forza Italia, per esempio, per dare la preferenza a Renzi, contro i suoi competitors. Ma lasciamo andare…).

Il secondo agghiacciante colpo veniva poco dopo, dalla conferenza stampa seguita all’evento. Le parole di Renzi hanno non soltanto aggravato l'inquietudine generata dalla decisione di incontrare Berlusconi, ma l’hanno fatta lievitare fino a farla diventare disperazione almeno in me, andando oltre ogni pur fondatissimo timore: la "profonda" e "importante" sintonia tra le proposte politico-istituzionali del PD renziano e quelle di Forza Italia, dichiarata da un Renzi compostamente entusiasta del suo "face to face" con il Cav., ha segnato una tappa questa sì, importante, nella storia della fu-sinistra italiana. Tutti gli organi di stampa lo hanno sottolineato, sia pure con intendimenti diversi, chi (la gran parte) per lodare, chi, da opposte barricate, per deplorare.

La “vergogna” dichiarata da Stefano Fassina, voce poco ascoltata nel PD, è stata comunque condivisa da qualche centinaio di migliaia di italiani e italiane, eredi della tradizione comunista. Pochi, comunque, perché dentro e fuori, ossia intorno al Partito Democratico, l’idea che “con Renzi si vince” è ancora dominante. Ma vincere cosa? E vincere per quale scopo? E su quale programma? Di programmi veri Renzi non ne ha mai presentati, se non questa beceraggine della riforma istituzionale e costituzionale, preceduta dalla cosiddetta riforma elettorale, che è la classica toppa peggio del buco.

In sintesi, il contenuto della “sintonia”, fa rifulgere nella sua luce più intensa quanti danni abbia fatto al Paese una classe politica che da Occhetto a Mario Segni, da Craxi a Berlusconi, senza trascurare “a sinistra” Veltroni e D’Alema, ha fatto della "governabilità" la sua chiave di volta per dare un futuro all'Italia. La governabilità, figlia del "decisionismo", a scapito della democrazia, con la foglia di fico della pseudo-democrazia delle "primarie", ha portato all'oggi. Quello che deprime, ancora una volta, è il silenzio di troppi intellettuali, o la loro acquiescenza, come se governabilità ed efficienza richiedessero un prezzo da pagare: la democrazia, appunto. Perché tutto questo ciarlare di “cambiamento”, dell’Italia da cambiare, di sistema da cambiare, e soprattutto, di Costituzione da cambiare, dove conduce, se non alla riduzione a farsa della democrazia? E alla eliminazione de facto del potere del cittadino? Al di là della nuova legge elettorale, pomposamente battezzata da Renzi “Italicum”, degna, non meno del “Porcellum” di Calderoli, della Legge Acerbo (del 1923, da cui le elezioni truffaldine del 1924, che spianarono la strada al totalitarismo mussoliniano), ossia intrinsecamente antidemocratica, e implicitamente fascista, è tutto l’impianto di questa intesa che inquieta: una politica ridotta a gioco di potenti, la forma di governo democratica che si vuole adeguare persino sul piano formale a quel gioco, trasformata in compiuta oligarchia, e l’ostracismo per chi non ci sta.

Insomma, il berlusconismo trionfa. Matteo appare oggi il vero erede di Silvio: le proposte su cui si profila l'intesa PD-FI sono agghiaccianti, ma altro non sono che il punto d’arrivo (per ora, ma chissà che cosa ci toccherà ancora vedere in futuro) di un tragitto politico che viene dall’era del CAF, dal principio degli anni Ottanta, e in specie da Bettino Craxi, il primo devastatore della democrazia italiana, e insieme il primo avversario della sinistra, al quale poi più avanti una mano robusta diede il picconatore Cossiga. Mentre fra gli eredi del Partito comunista, poi PDS, poi DS, poi PD, con la pseudo fusione con i cattolici etc., fu tutta una gara prima a rinnegare il passato, poi a inventare un futuro a partire da nomi poco compromettenti (Gandhi, Luther King, Kennedy…), da riferimenti teorici bislacchi quanto generici (ma innocui agli occhi dell’elettore non di sinistra), da programmi politici che cancellavano diritti e riducevano libertà: il tutto sotto l’ombrello della “modernità”.

E in questo quadro, in parallelo alla governabilità e quasi come suo sinonimo, spuntò il fiore velenoso del maggioritario: ricordo amici e compagni che votarono a favore. “Basta con tutti ‘sti partiti e partitini…!”, da tante bocche risuonò il grido liberatorio. Era la democrazia moderna che avanzava. Ecco dove ci ha condotto. Mentre, come ha ricordato recentemente Luciano Canfora (l’Unità, 19 dicembre 2013), che un po’ se ne intende, la democrazia non può che esplicarsi attraverso un sistema di voto proporzionale: oggi basta sentire un qualsivoglia tg, per cogliere volgarissimi sarcasmi contro “gli irriducibili del proporzionalismo”, quasi un residuato bellico da bonificare per mettere in sicurezza il sacro suolo della patria italiana che si avvia alla “Terza Repubblica” (l’espressione è renziana, of course). Una Repubblica che, a dispetto delle pessime prove fornite finora, una volta ancora alla nefasta idea del “bipolarismo”, tanto cara a Veltroni. Lo scenario che si profila è quello di due partitoni che, grazie a una legge scellerata avranno fatto il vuoto intorno a sé, eliminando quelli che sprezzantemente vengono chiamati “i cespugli” delle forze politiche minori: PD e PDL, due partiti padronali, gestiti autoritariamente, privi di qualsivoglia differenza, unificati da quella “profonda intesa” che è stata, in fondo meritoriamente, rivelata da Matteo Renzi.

Con il suo stile sbarazzino, sempre più duro (e pure un po’ acido), in realtà, e sempre meno scherzoso anche se non rinuncia alla battuta (come quella in risposta a chi ha criticato il suo incontro con Berlusconi: “con chi dovevo discutere? Con Dudù?”, in riferimento all’ormai celebre cagnetto della “fidanzata” di Berlusconi), Renzi porta avanti il proprio disegno all’insegna della pura conquista del potere e di gestione oligarchica dello stesso: leaderismo populistico autoritario, tanto di Matteo, quanto di Silvio. Due “battutisti” che recitano la parte del giovanilismo d’assalto: il ragazzo di Firenze e il sempreverde lombardo, di cui del resto ci fu garantita l’immortalità. La dimensione giovane comporta velocità: la democrazia è slow, la governabilità è fast. I conservatori procedono slowly, i riformatori vanno fastly e quickly. A Renzi bisognerebbe ricordare che la velocità favorisce gli incidenti. E che i giovani invecchiano, molto più rapidamente di quanto una certa cultura del maquillage e della palestra possa far loro credere.

Ma Renzi procede, spedito, sicuro, imperterrito. Il giovanottello di quartiere ha già assunto il tono del piccolo duce. Quanto rimane da distruggere? Ancora un bel po’. E chiede il consenso del suo partito per farlo, forte della propria spregiudicatezza e della propria facondia, che spesso lo fa dire e contraddire se stesso, come l’improvviso abbandono della campagna per restituire all’elettore la facoltà di scegliere i suoi rappresentanti, un mantra che ci ha accompagnato nelle settimane scorse ma anche lungo tutto il 2013. Ora ha cambiato linea, ma non lo segnala; conta sulla smemoratezza del popolo italiano. E si avventura in affermazioni temerarie, come questa: la proposta di cambiare il ruolo del Senato (trasformato nella cosiddetta "Camera delle autonomie", un'altra greve balordaggine), e in genere di manomettere l’intero Titolo V della Costituzione repubblicana, sarebbe (Renzi dixit) la "grande riforma costituzionale... attesa da 70 [settanta] anni". Peccato che la Carta costituzionale, discussa tra il 1946 e il 1947, sia entrata in vigore il 1° gennaio 1948. Come dire, ancora prima di partorirla, e addirittura di pensarla, i Padri costituenti stavano meditando di cambiarla. Largo alla nuova ignoranza. Del resto la cultura, come la democrazia, è slow. Noi siamo moderni: siamo fast. E la storia, poi, è inutile: va da sé.

Sgomenti, e forse speranzosi, in tanti hanno atteso la Direzione del PD. Con “linguaggio da piccolo cabotaggio di provincia” (come scrive Luca Michelini nella newsletter “Democrazia economica”), Renzi ha provato non solo a difendere l’intesa col Cavaliere, ma ne ha rivendicato i meriti, sostenendo che per tal via il PD si emancipa dalla egemonia culturale berlusconiana. Un genio, non c’è che dire! E ha insistito rudemente sul fatto che l’accordo non si discute, né si può cambiare in alcun modo, nel dibattito parlamentare. O con me, o contro di me: che vuol dire, naturalmente, ha chiosato con sicumera, contro tre milioni di italiani… Abbiamo sentito il dissenso di Cuperlo, moderato nella forma, abbastanza fermo nella sostanza. Attendiamo gli altri “non renziani” al varco. Credo che la sola cosa giusta da farsi, per la cosiddetta “opposizione interna” nel fatidico 20 gennaio 2014, davanti al discorso del leader, sarebbe stato alzarsi dalle poltrone e riunirsi immediatamente in un cinema, un teatro, una piazza, e proclamare la nascita di un nuovo partito. Con Berlusconi, direttamente o indirettamente con i suoi cloni, non si fanno accordi.

Si è sbagliato ad accettare il diktat di Napolitano verso l’infame quanto inefficiente “governo delle larghe intese” (e Renzi continua a usare quella intesa come prova che la sua con il nemico è lecita), sarebbe diabolico perseverare e, senza neppure il ricatto della necessità di “dare un governo al Paese”, accettare che Berlusconi diventi, di fatto, il capo del partito erede (indegno, ma pur sempre erede, anche amministrativo) del PCI. Anche se in fondo sarebbe una bella storia da raccontare…

(21 gennaio 2014)

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