9 dicembre 2014
A seguito del dibattito svoltosi nel corso
dell’assemblea nazionale del 1° dicembre 2014 sotto la presidenza del
presidente prof. Alessandro Pace, l’associazione “Salviamo la Costituzione: aggiornarla, non demolirla” esprime le seguenti valutazioni sulle riforme costituzionali
di cui al d.d.l. cost. n. 2613 AC:
1.
L’assemblea ribadisce il proprio favore per la tesi, già sostenuta dal
Presidente Scalfaro, secondo la quale una legge di revisione costituzionale
dovrebbe essere sottoposta a referendum popolare confermativo quand’anche
venisse approvata con la maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna
Camera; auspica quindi che il Parlamento colga questa occasione per rivedere in
tal senso l’art. 138 della Costituzione.
2.
L’assemblea rileva la disomogeneità che caratterizza il contenuto del d.d.l. in
quanto introduce contestualmente modifiche sia alla forma di governo sia alla forma di Stato. Così facendo il d.d.l. viola gli
articoli 1 e 48 della Costituzione - che proclamano rispettivamente la sovranità
popolare e la libertà di voto - in quanto costringe l’elettore, in sede di
referendum confermativo, a votare a favore o contro entrambe tali modifiche
ancorché sia favorevole solo ad una delle due. L’assemblea auspica, nel
contesto della revisione prospettata nel precedente § 1, che sia previsto che il
referendum debba avvenire separatamente per gruppi di disposizioni che siano omogenee
in considerazione dell’argomento trattato. Con riferimento al d.d.l. in
discussione, l’assemblea auspica perciò che la Camera disponga lo stralcio di
una delle due delle riforme per consentire agli elettori di poter votare
liberamente sull’altra.
3.
Il fatto che il Governo Renzi, contro ogni logica, abbia ritenuto di sottoporre
all’approvazione del Parlamento la sola legge elettorale della Camera,
autorizza l’assemblea a valutare contestualmente sia il d.d.l. cost. n. 2613 AC
sia il c.d. Italicum. E’ infatti questa legge elettorale, e non altra, quella
che, nelle intenzioni del Governo, dovrà costituire la struttura portante della
riforma della Camera dei deputati.
Ciò premesso, nell’ambito delle valutazioni sia della
forma di governo che della stessa forma di Stato (in quanto la riforma del
Senato incide sia sull’una che sull’altra), come modificate nell’articolato del
d.d.l. in esame, l’assemblea manifesta la più viva preoccupazione a che rimanga
inalterato il testo della legge elettorale denominato Italicum (sia nella versione approvata dalla Camera, sia in quella
successiva diffusa dagli organi di informazione), la quale, distaccandosi dalle
precise indicazioni contenute nella sentenza n. 1 del 2014 della Corte
costituzionale, rischia di privilegiare la governabilità rispetto alla
rappresentatività, anche e soprattutto in conseguenza del sistema prevalentemente
monocamerale cui darebbe vita il d.d.l. (v.
§ 4). Al riguardo è stato prospettato il rischio che il premio di maggioranza,
a seguito del ballottaggio, possa spettare - senza adeguati correttivi sui
requisiti per la partecipazione al ballottaggio - non alla prima lista ma alla
seconda ancorché questa sia stata votata soltanto dal 20 per cento degli
elettori. Con la conseguenza che le verrebbe attribuito un premio assolutamente
irragionevole.
4.
Nel merito del d.d.l. l’assemblea, pur convenendo sull’opportunità di
aggiornare la forma di governo e quindi di attribuire alla sola Camera dei
deputati il rapporto fiduciario col Governo, manifesta la sua decisa
contrarietà all’accentramento di poteri quale sarebbe determinato in capo alla
Camera, e quindi alla maggioranza di governo. La Camera dei deputati, alla luce
dell’attuale articolato, e grazie alla sproporzione esistente tra i componenti
della Camera (630) e i componenti del futuro Senato (100), potrebbe procedere
praticamente da sola alla revisione della Costituzione, all’esercizio della
funzione legislativa - tranne i pochi casi di esercizio collettivo di tale
funzione -, all’elezione del Presidente della Repubblica, all’elezione dei
componenti del Consiglio Superiore della Magistratura e all’elezione di tre dei
cinque giudici costituzionali.
5.
Oltre all’assenza di un forte ed effettivo contro-potere esterno - il Senato
essendo stato delegittimato quanto alla fonte dei suoi poteri, al numero dei
suoi componenti e alle attribuzioni ad esso conferite - l’assemblea rileva la
carente previsione di contro-poteri interni: la disciplina delle garanzie delle
minoranze parlamentari viene demandata
ai regolamenti parlamentari (che sono approvati dalla maggioranza); nel
procedimento legislativo viene escluso, salvo eccezioni, l’esame in commissione
referente dei disegni di legge; non è stata prevista la possibilità di ricorso
alla Corte costituzionale contro le decisioni delle Camere in tema di ineleggibilità,
incandidabilità e incompatibilità, da anni ed anni auspicato dai più autorevoli
studiosi.
6.
Come appena detto, l’assemblea è fortemente critica nei confronti del ruolo
riduttivo attribuito dal d.d.l. al Senato quale testimoniato dal fatto che i
senatori non rappresenterebbero più la Nazione, come se il Senato - ancorché
ridotto a soli 100 componenti - non fosse anch’esso un organo dello Stato
repubblicano che partecipa al procedimento di revisione costituzionale e alla
funzione legislativa, elegge il Presidente della Repubblica e due dei cinque
giudici costituzionali.
Per quanto limitati siano i poteri riconosciuti dal
d.d.l. al Senato a fronte di quelli riconosciuti alla Camera dei deputati
(significativo è che il Senato non potrebbe istituire commissioni parlamentari
d’inchiesta sulle materie sulle quali potrebbe legiferare o esercitare il
controllo!), ciò nondimeno allo stesso Senato viene attribuito sia il potere di
partecipare alla revisione costituzionale sia alla funzione legislativa, senza
però che i senatori siano eletti con suffragio diretto in sede regionale oppure
grazie ad un serio sistema di elezione indiretta. Ciò urta contro un principio
fondamentale del costituzionalismo, risalente ad almeno 800 anni, secondo il quale i detentori del potere
legislativo debbono essere eletti dal popolo ed al popolo debbono rispondere.
Pur ammettendo che anche l’elezione indiretta sia
sufficiente per rispettare tale principio, l’assemblea ritiene che il sistema previsto
dal d.d.l. identifichi una designazione tra consiglieri regionali effettuata in
21 piccoli collegi elettorali che solo in sette casi superano i 50 votanti, e non
una vera elezione in collegi. I 1032 futuri “grandi elettori” (tra consiglieri
e sindaci) “sceglierebbero”, tra di loro, i 95 senatori che continuerebbero ad
esercitare part-time le funzioni di consigliere regionale o di sindaco, laddove in
Francia sono 150.000 i “gradi elettori” (deputati, consiglieri regionali,
consiglieri generali e delegati dei consiglieri municipali) che eleggono i
circa 330 senatori.
Nessun commento:
Posta un commento