Elena Cattaneo *
CARO direttore,in Italia è difficile affrontare le questioni e discuterle usando i dati e gli strumenti migliori che le esperienze del passato e le conoscenze del presente mettono a disposizione. In altre parole, sembra che cercare di illustrare fatti provati faccia scattare in una buona parte della politica la messa in discussione — a volte anche livorosa e irrazionale — dell’utilità e del valore delle competenze, o di una conoscenza e uso dei fatti. Da qualsiasi parte arrivino. E queste modalità si perpetuano su molti argomenti trattati.D’altronde, da qualche decennio ascoltiamo presidenti del consiglio dire che noi “non abbiamo niente da imparare da nessuno”. Davvero? Eppure basta un po’ d’esperienza in contesti internazionali per capire che non è così. Ho imparato molto dal mio Paese, che amo profondamente, ma mi sono presto resa conto che oltre al molto da insegnare, umilmente, intelligentemente e senza spacconeria, possiamo altrettanto imparare. Ci sono modi migliori di quelli usati da noi per capire cosa serve fare per adeguare le istituzioni politiche, e come si potrebbero realizzare progetti socialmente ed economicamente più validi. Le serie ed efficaci azioni politiche, insegna la Storia, partono da premesse ben individuate, sviluppano ipotesi, cercano prove nel passato o strade nelle esperienze di altri, disegnano strategie del presente e del futuro di un Paese, simulano le opzioni, informano, richiamano e accolgono i cittadini intorno alle discussioni, offrendo tutti i ragionamenti immaginabili, anticipando conseguenze, etc. Ancora.Continuo a credere che la Costituzione sia stata pensata e scritta da grandi cervelli, con altrettanta personalità e accorta prudenza. Vi compaiono concetti che per molti (anche allora) sarebbero stati considerati scontati e quindi (col metro di oggi) non meritevoli di essere ribaditi nella Carta più alta che avrebbe regolato l’Italia. Cito un esempio per tutti, l’articolo 9: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Sembrerebbe un’idea scontata. Non lo era nel 1948, e infatti non è stata una guida costante per chi ha rappresentato e governato il Paese nel secondo dopoguerra. Nondimeno è, invece, il fondamento ideale che ha portato (anche oggi) una parte del Paese a proporre un Senato semplicemente ribattezzato anche “delle competenze”, che avrebbe potuto dare spazio a una rimodulazione organizzativa del Senato stesso, innovativa e alta, tale da incorporare anche quei saperi specialistici e di frontiera capaci di disegnare le strade del futuro. Invece, la proposta (“aperta” e tutta da discutere su un piano tecnico- istituzionale) è stata presa con totale sufficienza e praticamente cestinata, “in tutta fretta” da una buona parte della classe politica — mi si permetta — che si è dimostrata ancora una volta chiusa nelle sue liturgie.
Fra i nuovi compiti del Senato ci saranno la valutazione e la verifica delle attività delle pubbliche amministrazioni, delle politiche pubbliche, dell’attuazione delle leggi dello Stato. Queste attività di controllo, tutte da precisare per contenuti e modi di esercizio (elemento non secondario e ancora sconosciuto), dovrebbero essere supportate dai saperi specialistici per “immaginare oggi”, con proiezioni attendibili, gli esiti dell’assetto costituzionale futuro e “rinforzare domani” il lavoro del nuovo Parlamento. Sarebbe anche importante capire e quantificare oggi — se esistenti — gli effetti migliorativi attesi rispetto al contenzioso costituzionale derivante dalla riscrittura del Titolo V; oppure di quanto l’iter legislativo così ridisegnato sarà veramente più veloce — se questo è l’obiettivo; quali e quanti sono i costi, in rapporto ai benefici, del nuovo sistema costituzionale; quali i reali risparmi di spesa etc. Se con “metodo scientifico” ci si accostasse anche alla riforma costituzionale, molti equivoci circa la bontà del testo licenziato dal Senato potrebbero essere spiegati razionalmente ai cittadini, venire meno o essere corretti con grande beneficio per il futuro di questo Paese e per “l’amore” che la gente potrebbe avere per la “sua” Costituzione.
Quando si tocca lo Stato, le intenzioni devono essere sostituite da solide premesse per l’agire politico e da una disamina stringente delle conseguenze previste, dalle quali emerga il vantaggio ottenibile scegliendo una certa opzione, come se si dovesse condurre una sperimentazione clinica vitale. E, laddove non sia noto quale possa essere l’esito, si dovrebbe comporre una lista adeguata delle domande e delle incognite per immaginare le risposte e capire quanto più vicino alle attuali necessità del Paese quell’ipotesi ci possa portare. Per dirla con Max Weber, alle intenzioni vanno sostituite le responsabilità.
Penso che tutto questo manchi. Che non sia possibile immaginare e quantificare — senza preconcetti né velleitarismi — se le articolazioni istituzionali proposte saranno in grado di aumentare o peggiorare «le prestazioni » di una democrazia costituzionale come la nostra, rispetto ad un mondo complesso e interdipendente che ci vede ogni giorno più in affanno. Cercando di esorcizzarlo a “coup de théatre” sempre più ravvicinati.
* l’autrice è senatrice a vita e docente dell’Università degli Studi di Milano
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