mercoledì 22 agosto 2012

IL SEGRETO DI SILVIO



Pubblicato il 19 agosto 2012
 
 
Chi diede al Cavaliere i fondi per Milano 2? La chiave del mistero in un baule. Nelle mani dei pm fiorentini.
IL SEGRETO DI SILVIO
di Paolo Biondani, Maria Elena Scandaliato e Andrea Sceresini
Da dove sono arrivati tutti quei soldi? Nanni Moretti, nel film “Il Caimano”, simboleggia in una sequenza beffarda decenni di dubbi sull’origine delle fortune di Silvio Berlusconi: una valigia di denaro che cade dal cielo sulla scrivania del costruttore di Milano 2. Oggi il Cavaliere di Arcore sembra perseguitato da un’altra valigia. Piena di carte di trent’anni fa. Un baule di documenti ingialliti dal tempo, conservati da un’eminenza grigia della Dc milanese. Che ora giura di aver obbedito all’ordine di consegnare tutto ai magistrati, affinché facciano luce sui misteriosi canali finanziari che, tra banche italiane e anonime fiduciarie svizzere, avevano sostenuto le prime scalate di Berlusconi al potere economico.
Ezio Cartotto, 69 anni compiuti da poco, è un pensionato della politica che vanta una memoria di ferro. Negli anni Novanta il suo nome era spuntato dal nulla in mezzo alle inchieste che portarono alla condanna definitiva di Marcello Dell’Utri per falso in bilancio: il braccio destro di Berlusconi lo aveva assoldato in gran segreto come super-consulente per la creazione di Forza Italia (nome in codice, “Operazione Botticelli”) pagandolo con fondi neri e fatture false. Alto, volto rotondo, occhiali spessi, calvizie incipiente, oggi Cartotto accetta di spiegare a “l’Espresso” come è nato il suo rapporto con Berlusconi. E quali segreti potrebbe nascondere quel suo «baule di carte» scoperto dai pm di Firenze che lo hanno interrogato e intercettato fino all’inizio di quest’anno.
La prima rivelazione, la più prevedibile, è che Dell’Utri non si affidò a un estraneo: Cartotto aveva conosciuto Berlusconi quarant’anni fa e conquistato la sua confidenza «aiutandolo a superare un gravissimo problema urbanistico che minacciava di bloccare Milano 2». Correva l’anno 1972. «Con la nascita delle Regioni, in Lombardia cambiavano tutte le regole edilizie. Berlusconi venne a trovarmi perché temeva il fallimento: l’Edilnord rischiava di non poter più costruire». Fedelissimo del più volte ministro Giovanni Marcora, all’epoca Cartotto era responsabile per gli enti locali della Dc milanese. «In provincia amministravamo 170 comuni, a Segrate avevamo l’assessore all’urbanistica e poi controllavamo il Pim, il Piano intercomunale milanese». E allora cosa succede? «Berlusconi comincia a telefonarmi, mi segue in macchina, viene a trovarmi a casa… Un tormento. Non ho mai conosciuto nessun altro dotato di una così grande capacità di vendere se stesso. Alla fine mi persuade a dargli una mano». Come? «Il problema fu risolto dai tre direttori del Pim: oltre al nostro della Dc, gli presentai l’architetto Silvano Larini per il Psi, mentre per il Pci c’era Epifanio Li Calzi». Due nomi destinati a entrare nella storia di Tangentopoli. Risultato? «Via libera ai progetti superiori a mezzo milione di metri cubi, come Milano 2».
Da allora e fino alla nascita di Forza Italia, Cartotto stringe un rapporto sempre più stretto con il costruttore emergente. Raccoglie sfoghi e confidenze. E risolve problemi. Grazie alla politica. «Morirò democristiano», rivendica ancor oggi, rievocando gli anni d’oro in cui conquistava entrature potenti al vertice dello scudo crociato e nel mondo degli affari che dipendevano dal partito. Ed è proprio incrociando le fonti più riservate con le indiscrezioni carpite al Cavaliere, che Cartotto sostiene di aver capito come fu finanziata la sua ascesa: «Ha ottenuto i primi capitali grazie alla P2 e ad Andreotti. Ed erano capitali maleodoranti». Parole grosse, che Cartotto pronuncia con calma olimpica, nella sua piccola casa piena di libri, con vista sui capannoni dell’hinterland a nord di Milano, seduto in salotto accanto al cane accovacciato, tra tavolini ingombri di carte, lamentandosi degli acciacchi dell’età. Già nel ’96 aveva raccontato ai magistrati le rivelazioni che gli avrebbe fatto Filippo Alberto Rapisarda: presunti pacchi di soldi «spediti da Palermo negli anni ’70 e divisi con Dell’Utri» proprio da quel chiacchierato finanziere siciliano, destinato nel ’94 a ospitare il primo club di Forza Italia a Milano. Parole rimaste senza riscontri e cadute nel vuoto. Ora Cartotto sostiene di avere documenti inediti. E propone un racconto che parte dalla Banca Rasini, dove lavorava il padre di Berlusconi, passa per la loggia di Licio Gelli e arriva all’allora vertice del Monte dei Paschi di Siena, facendo tappa tra la Svizzera e un istituto di credito italo-israeliano. Che i primi prestiti a Berlusconi li avesse concessi la Banca Rasini, lo ha confermato lo stesso Cavaliere, ma il resto è tutto da provare: quali indizi può offrire, signor Cartotto? «La banca fondata dai nobili Rasini fu acquistata nei primi anni ’70, tra lo stupore generale, da un certo Giuseppe Azzaretto, un affarista di Misilmeri, periferia di Palermo. Un commercialista milanese di altissimo livello, G. R., amico di Marcora e molto addentro alla Rasini, mi disse subito che quell’istituto mono-sportello era “la chiave per il passaggio di capitali maleodoranti”. Un’altra mia fonte fu Luigi Franconi, morto qualche anno fa. E la conferma su Andreotti l’ho avuta da un incontro».
Alt. La Banca Rasini fu effettivamente al centro dei primi processi per mafia a Milano, che fecero scoprire addirittura conti intestati ai boss di Cosa nostra. Ma ora Cartotto chiama in causa Andreotti. Sta dicendo che era il sette volte premier a suggerire dove investire i capitali mafiosi nascosti in quella piccola banca milanese? «Ufficialmente la Rasini era di Azzaretto padre e di suo figlio Dario, ma in realtà era controllata da Andreotti. Era la sua banca personale. C’è un riscontro che nessuno sa: Andreotti andava in vacanza tutti gli anni nella villa degli Azzaretto in Costa Azzurra. Di questo ho la certezza. Per verificare le mie fonti, ho fatto in modo che Sergio, l’altro figlio di Azzaretto, incontrasse a Roma il nipote di Andreotti, Luca Danese. Si sono visti davanti a me. Baci e abbracci. Si dicevano: “Ti ricordi quando giocavamo insieme…”. Detto questo, basta ragionare: la Cassazione, con la sentenza di prescrizione, ha stabilito che fino al 1980 Andreotti è stato il referente politico dei più ricchi boss di Cosa nostra. E a quel punto chi ha comprato, o si è intestato, la Rasini? Nino Rovelli, l’industriale legatissimo ad Andreotti, ma anche all’avvocato Cesare Previti. Come vedete, tutto torna».
Come logica politica, forse, ma la verità storica richiede certezze. Che Cartotto è convintissimo di avere: «Negli stessi anni Berlusconi aveva una corsia preferenzialissima al Monte dei Paschi. Ricordo che andava spesso a Siena, anche una volta alla settimana. E otteneva finanziamenti enormi. Infatti all’epoca la banca era diretta da Giovanni Cresti, che nell’81 risultò iscritto alla loggia P2 come Berlusconi». Tessera 521, si leggeva sulla lista, ma il banchiere smentì tutto. Cartotto invece insiste: «Era uno dei più importanti dopo Gelli. Secondo le mie fonti era il numero 3». Un fatto certo è che la commissione Anselmi inserì Berlusconi tra gli imprenditori che, grazie alla P2, ottennero massicci finanziamenti proprio a Siena oltre ogni merito creditizio. Ma Cartotto, che cita nomi e confidenze di vari amici iscritti alla loggia, si spinge molto più in là: «Il mondo di Andreotti e la P2 erano sovrapponibili». In che senso? «Andreotti era il dominus politico della P2. Secondo molti, il vero capo sarebbe stato lui».
Tra ricordi, confidenze, deduzioni e convinzioni personali, Cartotto parla anche di carte segrete che proverebbero fatti certi. E qui spunta il baule di documenti che, non a caso, gli sono stati richiesti dai magistrati di Firenze. «Riguardano un aumento di capitale per Milano 2, che avevo seguito personalmente. Era il 1973. Allora Berlusconi figurava come dipendente dell’Edilnord, che era una società di persone controllata da finanziarie svizzere intestate a una domestica o a un fiduciario. Era chiaro che erano tutte balle e che in realtà l’Edilnord era sua. Quindi Berlusconi mi disse che aveva bisogno di creare una più presentabile società di capitali. Ma all’epoca era proibito mandare i soldi all’estero. Allora gli feci un favore. Lo chiesi a un mio caro amico democristiano, l’avvocato Ferruccio Ferrari, che era l’amministratore della Cefin, la società che finanziava le nostre cooperative bianche, poi fallita. Questa Cefin aveva una bella quota, se non ricordo male il 30 per cento, della Banca italo israeliana, un istituto con un solo sportello a Milano. Attraverso questa banca abbiamo fornito in Svizzera a Berlusconi il denaro per l’aumento di capitale. Ferrari era uno specialista in queste operazioni. E alla fine mi disse: “Tutto a posto, Berlusconi ci ha restituito i soldi”. Insomma, le società erano svizzere, ma i soldi erano tutti italiani. E la reale provenienza l’abbiamo già vista: capitali maleodoranti».
E lei per tutti questi anni ha tenuto i documenti in un baule? «Sì, in una soffitta». E perché? «Per poter dimostrare che Berlusconi ha raccontato bugie fin dall’inizio». Eppure lei è stato suo consulente per vent’anni, salvo litigare nel ’96, dopo aver testimoniato su Dell’Utri. «Berlusconi è un uomo molto intelligente e seduttivo. Ricordo quando riuscì a far comprare da un ente pubblico gli appartamenti dell’Edilnord di Brugherio che erano rimasti invenduti. Il presidente era un ottimo burocrate che io conoscevo bene, Vito Mancuso, già commissario all’Eur sotto il fascismo, poi legato ad Andreotti. Berlusconi lo tempestava di richieste, ma lui non sentiva ragioni. Un giorno il dottor Mancuso prese un treno per Milano e si trovò da solo con lui. Berlusconi aveva comprato tutti i biglietti. Alla fine Mancuso si arrese. Berlusconi è davvero straordinario nel fare i suoi interessi». E perché poi avete litigato? «Al processo di Palermo avevo l’obbligo di dire la verità, quindi rivelai ai giudici che Dell’Utri, negli anni ’70, mi aveva chiesto voti per Vito Ciancimino. Dell’Utri si arrabbiò e si lamentò con Berlusconi. E io feci l’errore di rispondere al Cavaliere che solo Dell’Utri poteva affidare Forza Italia a Milano a uno come Rapisarda». Il sindaco mafioso Ciancimino e il bancarottiere Rapisarda: proprio i rapporti pericolosi al centro del processo-bis contro Dell’Utri a Palermo. Ai giudici l’arduo verdetto.

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