12 luglio 2013 -
Walter Tocci
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Mi chiedo, perché? Per cosa? E in nome di chi?
Il perché riguarda il tema della decisione. Si ricorre all’ingegneria istituzionale per obbligare il politico a fare ciò che non gli riesce spontaneamente. Si riprende a sfogliare l’atlante politologico alla ricerca del modello – francese, tedesco, spagnolo, americano e perfino australiano – che dovrebbe essere capace di redimere la politica. Questo cadornismo applicato al sistema politico-istituzionale ha sempre fallito: il bipolarismo doveva eliminare la corruzione, il federalismo doveva promuovere lo sviluppo locale, il maggioritario doveva garantire la stabilità e via di questo passo. Per dirla con Don Abbondio, chi non ha la volontà politica non se la può dare con gli artifici istituzionali. Eppure questa illusione è dura a morire. Ha sostenuto strategie politiche, animato talk show, ha creato perfino un nuovo ordine professionale degli ingegneri istituzionali – costituito dai parlamentari esperti del tema, ai quali va comunque la mia stima personale, dai giuristi che ne hanno fatto una carriera accademica e dagli editorialisti che ne hanno fatto una fortuna mediatica. L’ordine degli ingegneri si pone solo domande tecniche, evitando i problemi che potrebbero mettere in discussione la sua esistenza.
Il dato saliente del trentennio è la crisi dei partiti. La causa politica dell’ingovernabilità è stata però trasferita in capo alle istituzioni: “se non si decide, non è colpa mia ma dello Stato che non funziona”. Questo è il motto del politico, a tutti i livelli, dal governo nazionale fino all’ultimo dei municipi. Ma lo sviamento non è stato innocuo. È servito come alibi alla politica per non affrontare i suoi problemi, che nel frattempo si sono aggravati. Le istituzioni sono state stravolte per finalità strumentali invece di essere curate nella loro essenza. La promessa era di riformare lo Stato per migliorare i partiti, ma sono peggiorati entrambi; mai erano precipitati tanto in basso nella stima dei cittadini. È tempo di fare sobriamente la nostra parte lasciando in pace le istituzioni. L’unica riforma veramente necessaria è cambiare i nostri partiti per renderli adeguati a governare il futuro Paese.
La domanda sul cosa si è ridotta a un mantra: il mondo cambia e bisogna decidere in fretta. Ma in quest’aula sappiamo bene che le leggi più brutte sono proprio quelle più frettolose: il Porcellum fu approvato in poche settimane; le leggi ad personam di gran carriera; diversi decreti di Monti, dai contratti di lavoro fino all’eliminazione delle province, furono approvati tra lo squillar di trombe e si ritrovano oggi smontati dal governo Letta. Il decisionismo senza idee ha prodotto un’alluvione normativa che soffoca l’economia e la vita quotidiana dei cittadini. Ce la prendiamo con la burocrazia come se fosse un destino cinico e baro, ma essa dipende dalle troppe leggi che approviamo qui. Aveva ragione Luigi Einaudi a fare l’elogio della lentezza parlamentare come antidoto all’ipertrofia normativa.
Non è la velocità, ma la qualità che manca al procedimento legislativo. La causa è nello strapotere dei governi che da tanti anni impongono a colpi di fiducia le leggi omnibus, con centinaia di commi disorganici, improvvisati, spesso modificati prima di essere applicati. Questa peste normativa distrugge l’Amministrazione dello Stato, fa nascere i contenziosi, le interpretazioni fantasiose e la paralisi attuativa. Bisognerebbe restituire al Parlamento la piena sovranità legislativa, ma questa autoriforma dovremmo farla noi, cari colleghi, senza delegarla all’ordine professionale degli ingegneri istituzionali. Dovremmo attuarla con l’orgoglio di parlamentari: poche leggi l’anno, in forma di Codici unitari, delegando funzioni al governo e aumentando i poteri di controllo; stabilire che non si legiferi senza prima valutare i risultati delle leggi precedenti; dare alle commissioni parlamentari poteri effettivi di inchiesta – un dirigente di Finmeccanica, quando viene chiamato in Senato, dovrebbe temere la graticola come un dirigente di strutture federali chiamato a render conto di fronte al Congresso americano.
Sulla terza domanda, in nome di chi, si risponde di solito appellandosi all’interesse nazionale. Eppure ogni volta che abbiamo modificato la Costituzione ce ne siamo poi dovuti pentire: il Titolo Quinto ha creato conflitti permanenti tra Stato e Regioni; dopo lo ius sanguinis del voto all’estero oggi si passa a invocare lo ius soli per i figli degli immigrati; prima si blocca il pareggio di bilancio e poi si esulta per la deroga concessa dall’Europa.
D’altro canto, basta leggere il testo per notare la discontinuità. La bella lingua italiana, con le parole semplici e intense dei padri costituenti, viene improvvisamente interrotta da un lessico nevrotico e tecnicistico, scandito dai rinvii a commi, come in un regolamento di condominio. Sono queste le parti aggiunte da noi.
Fortunatamente i cittadini hanno evitato i guai peggiori bocciando la legge costituzionale ideata dagli stessi autori del Porcellum. L’unico baluardo lo abbiamo trovati nei presidenti di garanzia come Scalfaro, Ciampi e Napolitano. Mi sconcerta la leggerezza con la quale si ritiene possibile demolire questo ultimo bastione. In Italia la personalizzazione si è sempre presentata come patologia, mai come responsabilità della leadership. Non scherziamo col fuoco. Il presidenzialismo non sarebbe un emendamento, ma un’altra Costituzione.
Dovremmo avere un senso del limite. I nostri partiti rappresentano oggi a malapena la metà del corpo elettorale. L’altra metà ha manifestato in tutti i modi il suo disagio e la sua sfiducia. Non è saggio usare la revisione costituzionale per santificare un governo privo del mandato elettorale. Questo è il vulnus che segna la modifica del 138. Il procedimento lega la sorte del governo ai tempi e ai modi della revisione costituzionale. Porre un vincolo di maggioranza come inizio e come fine della riforma è una forzatura politico-costituzionale senza precedenti in Italia e in Europa. I governi passano e le costituzioni rimangono – non dimentichiamolo.
La nostra, la mia generazione ha dimostrato abbondantemente l’inadeguatezza al compito costituente. Che possa adempierlo oggi, al minimo storico del consenso elettorale, è un ardimento senza responsabilità, è una dismisura contro la saggezza costituzionale. Lasciamo alle generazioni successive il compito di rielaborare l’eredità ricevuta dai padri costituenti. Non tutte le generazioni hanno l’autorevolezza per cambiare le Costituzione.
Dovremmo prenderne atto con l’umiltà che dovrebbe sempre accompagnare l’esercizio del potere. Quell’umiltà che è oggi il miglior contributo che possiamo portare alla Carta Costituzionale.
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