11 giugno 2014 - 1 Commento »Pierluigi Petrini
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Chi
ancora sostiene che la nostra Costituzione debba essere radicalmente
rivista perché la sua vetustà impedisce un’efficace e tempestiva azione
di governo, mente, o per ignoranza (il più delle volte), o per malafede.
La vita politica del paese, infatti, si svolge con modalità ormai
completamente estranee al dettato Costituzionale. Quei “professoroni”,
che hanno meritato il dileggio del Presidente del Consiglio, direbbero
che la Costituzione materiale si è talmente discostata dalla
Costituzione formale da averne tradito la sostanza.
Si è, infatti, ribaltato il rapporto gerarchico tra governo e parlamento. Il potere esecutivo, che si considera il vero depositario della rappresentanza popolare, lascia al Parlamento solo l’insindacabile dovere di sostenere la propria azione anche quando invade campi che sarebbero di stretta pertinenza del potere legislativo quali le leggi elettorali e quelle di revisione costituzionale ex articolo 138. A riprova di quanto detto è giunta ieri la rimozione dalla prima commissione dell’Onorevole Mauro, colpevole di aver manifestato la propria contrarietà al disegno di legge costituzionale del governo. In quella legge, andando ben oltre al potere di revisione che l’articolo 138 pone in capo al parlamento, il governo si impossessa impropriamente del potere costituente operando una vera e propria palingenesi costituzionale. Ma, ai parlamentari non è concesso manifestare il proprio pensiero se lo stesso non si uniforma alla volontà del leader. Al parlamento non è concesso discutere della congruità di un disegno di legge figlio di un opaco accordo di vertice e scribacchiato da una giovane avvocatessa di provincia e da un ex macellaio, deve solo ratificarne la volontà. All’opinione pubblica non è concesso sapere perché un Senato eletto indirettamente sarebbe salvifico per i destini del paese e perché un Senato eletto direttamente e sottratto alle camarille della casta sarebbe un insormontabile ostacolo al sol dell’avvenire renziano. La rimozione del dissenso e la negazione del confronto sono atti d’imperio emblematici della deriva populista della nostra democrazia ormai ridotta all’acclamazione del leader sull’onda delle emozioni mediatiche, al riparo da qualunque ragionamento. Emblematica è anche la supina accettazione di questi accadimenti da parte del parlamento e dell’establishment, incapaci di coglierne il pieno significato e ormai faticosamente impegnati a soccorrere il vincitore. Agli entusiasti renziani sfugge che queste distorsioni oggi utili alla missione salvifica del loro eroe, potranno un domani essere nelle mani di qualunque altro populista. Sfugge che l’essenza della democrazia non è nella scelta del condottiero ma nel vigile controllo sull’esercizio del potere. Sfugge che ogni potere tende per sua natura a travalicare i propri limiti e che ogni potere privo di limite sconfina nell’arbitrio e nell’abuso. Naturalmente queste parole saranno accolte dai più con un sorriso di sufficienza a significarne l’esagerazione e la sproporzione. Le democrazie sono sempre degenerate fra l’indifferenza e l’ignavia delle classi dirigenti.
Si è, infatti, ribaltato il rapporto gerarchico tra governo e parlamento. Il potere esecutivo, che si considera il vero depositario della rappresentanza popolare, lascia al Parlamento solo l’insindacabile dovere di sostenere la propria azione anche quando invade campi che sarebbero di stretta pertinenza del potere legislativo quali le leggi elettorali e quelle di revisione costituzionale ex articolo 138. A riprova di quanto detto è giunta ieri la rimozione dalla prima commissione dell’Onorevole Mauro, colpevole di aver manifestato la propria contrarietà al disegno di legge costituzionale del governo. In quella legge, andando ben oltre al potere di revisione che l’articolo 138 pone in capo al parlamento, il governo si impossessa impropriamente del potere costituente operando una vera e propria palingenesi costituzionale. Ma, ai parlamentari non è concesso manifestare il proprio pensiero se lo stesso non si uniforma alla volontà del leader. Al parlamento non è concesso discutere della congruità di un disegno di legge figlio di un opaco accordo di vertice e scribacchiato da una giovane avvocatessa di provincia e da un ex macellaio, deve solo ratificarne la volontà. All’opinione pubblica non è concesso sapere perché un Senato eletto indirettamente sarebbe salvifico per i destini del paese e perché un Senato eletto direttamente e sottratto alle camarille della casta sarebbe un insormontabile ostacolo al sol dell’avvenire renziano. La rimozione del dissenso e la negazione del confronto sono atti d’imperio emblematici della deriva populista della nostra democrazia ormai ridotta all’acclamazione del leader sull’onda delle emozioni mediatiche, al riparo da qualunque ragionamento. Emblematica è anche la supina accettazione di questi accadimenti da parte del parlamento e dell’establishment, incapaci di coglierne il pieno significato e ormai faticosamente impegnati a soccorrere il vincitore. Agli entusiasti renziani sfugge che queste distorsioni oggi utili alla missione salvifica del loro eroe, potranno un domani essere nelle mani di qualunque altro populista. Sfugge che l’essenza della democrazia non è nella scelta del condottiero ma nel vigile controllo sull’esercizio del potere. Sfugge che ogni potere tende per sua natura a travalicare i propri limiti e che ogni potere privo di limite sconfina nell’arbitrio e nell’abuso. Naturalmente queste parole saranno accolte dai più con un sorriso di sufficienza a significarne l’esagerazione e la sproporzione. Le democrazie sono sempre degenerate fra l’indifferenza e l’ignavia delle classi dirigenti.
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La rimozione del dissenso e la negazione del confronto sono atti d’imperio emblematici della deriva populista della nostra democrazia ormai ridotta all’acclamazione del leader sull’onda delle emozioni mediatiche, al riparo da qualunque ragionamento. Emblematica è anche la supina accettazione di questi accadimenti da parte del parlamento e dell’establishment, incapaci di coglierne il pieno significato e ormai faticosamente impegnati a soccorrere il vincitore. Agli entusiasti renziani sfugge che queste distorsioni oggi utili alla missione salvifica del loro eroe, potranno un domani essere nelle mani di qualunque altro populista. Sfugge che l’essenza della democrazia non è nella scelta del condottiero ma nel vigile controllo sull’esercizio del potere. Sfugge che ogni potere tende per sua natura a travalicare i propri limiti e che ogni potere privo di limite sconfina nell’arbitrio e nell’abuso. Naturalmente queste parole saranno accolte dai più con un sorriso di sufficienza a significarne l’esagerazione e la sproporzione. Le democrazie sono sempre degenerate fra l’indifferenza e l’ignavia delle classi dirigenti.
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