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di Angelo d’Orsi
“Resistere,
resistere, resistere…”. Era il 12 gennaio 2002, a Milano, quando
Francesco Saverio Borrelli tenne il suo ultimo discorso inaugurale
dell’anno giudiziario, nelle vesti (toga nera in segno di lutto) di
procuratore della Repubblica di Milano. Resistere come sulla linea del
Piave: precisò, con riferimento che rinviava alla sua formazione di
liberale democratico. Fu allora che i rappresentanti del governo
(ministro della Giustizia l’ingegnere Roberto Castelli, della Lega Nord
Padania, il cui principale titolo intellettuale era probabilmente la
collaborazione alla rivista Motociclismo) lasciarono l’aula del Palazzo
di Giustizia, sdegnati. Quanto al presidente del Consiglio dell’epoca
era un signore che aveva (e che ha) innumerevoli conti aperti con la
Giustizia.
Era difficile resistere a una siffatta masnada, e
Borrelli (a cui non è stato concesso il laticlavio: ma quanto l’avrebbe
meritato: siamo ancora in tempo, caro Presidente della Repubblica…)
aveva guidato la resistenza.
Un filo univa quella resistenza
giuridica, in nome della legalità offesa, della giustizia vilipesa,
della uguaglianza dei cittadini davanti alla legge: resistenza alla
prepotenza, resistenza al canagliume, resistenza alla pretesa
dell’impunità.
Eppure quel resistere iterato, tre volte come in un
salmo laico, rinviava ad altre, più epiche e drammatiche vicende, quelle
che videro l’Italia divisa, ancora una volta, in due blocchi, con un
“centro” la cui consistenza rimane tutta da acclarare e definire. Quel
resistere richiamava all’azione attiva, dunque non meramente passiva, di
“resistenza” nel senso debole, quanti non volevano essere complici e
neppure vittime inerti del degrado dell’etica pubblica, della
trasformazione della democrazia, in senso plebiscitario e
bonapartistico. Di quanti, insomma, non volevano piegarsi all’idea che
l’Italia per la quale molti decenni avanti, uomini e donne, avevano
combattuto. Un filo, insomma, univa, idealmente, quella nuova resistenza
a quella storica: ed era un implicito riconoscimento, un atto d’amore
per chi, allora, aveva tentato, vittoriosamente, di fermare il
nazifascismo, snidando gli indifferenti, e ridando dignità a un popolo,
che, grazie a quelle minoranze coraggiose, poté giungere alla pace del
dopo-fascismo anche (sebbene, certo, non solo) per “armi proprie”,
usando una celebre espressione di Niccolò Machiavelli.
In fondo,
ne fosse cosciente o meno, Borrelli stava evocando quella epopea,
mostrandone la perenne validità, e, insieme, la sempiterna necessità. La
Resistenza, con la maiuscola, aveva attraversato stagioni diverse,
oscillando dalla celebrazione alla demonizzazione. Anzi, proprio la
celebrazione, quella più retorica, e vuota di significato, aveva finito
per diventare una delle involontarie, ma potenti chiavi di spiegazione
del diffuso rigetto della Resistenza nel senso comune, di cui politici e
giornalisti e pseudostorici si sono fatti interpreti, nel corso dei
decenni. Aveva generato, insomma, fastidio, il mito resistenziale: la
divisione netta in due Italie, un’esaltazione acritica e priva di
mediazioni del significato dell’attività dei partigiani, la
contrapposizione semplicistica, anche se retoricamente efficace, tra il
bene e il male (“Tutto il bene avevamo nel cuore / Tutto il male avevamo
di fronte”, canta Italo Calvino, musicato da Sergio Liberovici),
secondo la canonica interpretazione dicotomica che è nel cuore della
propaganda di guerra.
La
memorialistica aveva contribuito potentemente a creare il mito
resistenziale, stabilendo una continuità tra antifascismo esplicito del
periodo 1919-26, antifascismo implicito, nicodemitico, nascosto,
esiliato nel periodo 1926-1943, e ritorno dell’antifascismo esplicito,
dichiarato e in armi del ‘43-45. Una perfetta catena in cui l’un anello
giustificava l’altro, prescindendo da una effettiva ricerca della
verità.
La Resistenza, il “25 Aprile”, tra celebrazioni sempre più
ripetitive, spesso insulse, anche per la scadente qualità dei
celebranti, e per il loro passato non sempre specchiato dal punto di
vista della militanza antifascista, alla lunga era divenuta un oggetto
decorativo.
Nel ’68 si verificò, su vasto raggio, uno scontro
fra la generazione della Resistenza e i suoi figli, che accusavano i
padri di aver non solo tradito, ma anche dimenticato i valori per i
quali avevano combattuto o dichiaravano di averlo fatto. Fu uno scontro a
tratti aspro, e le accuse mosse ai “vecchi” dai “giovani” erano spesso
ingiuste, ma qualche elemento di verità emergeva, e fu quella la base
anche per avviare una rivisitazione del tema Fascismo/Antifascismo. Ciò
favorì, al di là delle polemiche, una nuova stagione di studi, in cui il
tema del consenso incominciò ad emergere, sulla base delle
sollecitazioni provenienti da Renzo De Felice, sia pure in una
impostazione che contestammo allora e che contesto oggi. Quel tema che
era stato forse il problema principale: aveva fatto scuola la posizione
crociana della parentesi; sicché mentre da una parte emergeva uno
sconfortante panorama di un paese dove nessuno era stato veramente
fascista, dall’altra parte, da parte dei nostalgici (si pensi a “Il
Borghese”, come esempio paradigmatico), si proponeva un panorama
esattamente rovesciato e contrario: tutti fascisti, dunque tutti
colpevoli, dunque nessun colpevole.
Il fatto è che in Italia non
c’era stata fino ad allora, né ci fu dopo, una seria presa di coscienza
della stagione fascista: non sono mancati gli studi, ma è stato troppo
carente una assunzione di responsabilità, una franca ammissione da parte
di coloro che, in campo politico, imprenditoriale, intellettuale,
avevano avuto compromessi di varia entità con il regime.
Più o
meno contestualmente alla “smitizzazione” della Resistenza, e alle nuove
ricerche storiche, perlopiù favorite dagli Istituti locali, per la
storia del Movimento di Liberazione, iniziò e si sviluppò con i mefitici
anni Ottanta, accentuandosi nei Novanta, un attacco a tutto campo,
all’antifascismo, che aveva in realtà un obiettivo non così diverso da
quello che oggi hanno i “riformatori”, e che le menti oneste e lucide di
quella stagione, poche, in vero (ricordo un nome per tutti: Alessandro
Galante Garrone), avevano denunciato: attaccare l’antifascismo (e il
comunismo italiano, in particolare), per svilire la Resistenza, ma il
fine ultimo era contestare la Costituzione repubblicana.
Era
quello il vero obiettivo politico: non solo dell’ondata revisionistica,
ma anche di quel gran parlare di “riforme” che nella infelice epoca
craxiana, dentro e fuori la P2, si fece: ed era un discorso rovesciato
rispetto a quello di dieci-vent’anni prima, quando a parlare di riforme
era la sinistra, che con quella parola chiedeva niente altro che la
piena attuazione del dettato costituzionale; rovesciando i termini della
questione, ora i riformisti chiedevano esattamente il contrario,
chiedevano di manomettere la Costituzione. E hanno fatto scuola: da
Berlusconi ai suoi avversari, tutta la classe dirigente dell’attuale
Partito democratico, hanno lavorato con questo essenziale obiettivo:
tarpare le ali alla Costituzione.
Ebbe allora corso e fortuna
crescente l’invettiva contro la “vulgata antifascista”, mentre si
lavorava per creare un senso comune per cui torti e ragioni fossero
spartiti “equamente”, magari in nome di una “pacificazione” nella quale
perseguitati e persecutori, eroi e traditori, spie e patrioti autentici
siano riassunti in un’unica lapide, magari con la scritta “morti per la
patria”. O, peggio ancora, vorrebbero, riprendendo la tesi di Renzo De
Felice, enfatizzare la dimensione e il significato della cosiddetta
“zona grigia”: gli italiani che non si schierarono, quelli che rimasero a
guardare, quella parte del Paese che non fu né con i repubblichini né
con i partigiani. Ma la zona grigia, l’Italia che non si schierava era
quella che voleva la fine della guerra: un desiderio, un grido che
rinviava decisamente all’antifascismo; e quella stessa Italia era quella
che proteggeva i resistenti attivi.
Un involontario contributo
giunse dal libro di Claudio Pavone, “complice” di uno sdoganamento: la
Resistenza come “guerra civile” con il suo libro così intitolato del
1991. Anche se nell’analisi di questo grande studioso, che come i due
suoi grandi predecessori, Roberto Battaglia e Guido Quazza, alla
Resistenza aveva partecipato direttamente, si parla di tre guerre fra il
’43 e il ’45: 1) una guerra di liberazione nazionale; 2) una guerra
sociale: lotta di classe, per un altro genere di liberazione, non più
dal nemico esterno, ma dal nemico interno, il nemico di classe; 3) una
guerra civile: italiani contro italiani, antifascisti contro fascisti,
guerra di ideali e di interessi insieme, di valori e di opzioni
politiche.
Le tre guerre, si intrecciavano, naturalmente. Ma nel mainstream fu
colta, arbitrariamente, solo la guerra civile, già cavallo di battaglia
della pseudostoriografia e della pubblicistica “nostalgica”
dell’immediato dopoguerra. E da ciò giunse un incentivo alla nuova
ondata revisionistica, che sarebbe poi diventata rovescistica, per
servirmi di un termine che mi vanto di aver coniato. Giornalismo,
letteratura, memorialistica fecero a gara per celebrare “i ragazzi di
Salò”, equiparandoli di fatto o di diritto, nella invocata “memoria
condivisa”, ai partigiani, contro i quali la campagna di fango era
cominciata e diventava via via più aggressiva. L’arrivo dei libri di
Pansa, cominciando dal primo (2003) fu la ciliegia sulla torta. E il
loro successo commerciale fu il segnale che la situazione politica e
culturale del Paese stava scivolando in una sorta di buco nero. Non si
spiega senza questo contesto: pochi fecero caso che la principale fonte
di quelle “opere” erano quelle di Giorgio Pisanò, già militante della
RSI, giornalista e politico nel MSI (di cui fu anche rappresentante al
Senato).
Come per Pavone, così per Pansa, la provenienza
politica dell’autore (dall’area progressista), fu artatamente usata come
“conferma” che quella del ’43-45 era stata “soltanto” una guerra
civile; e, con Pansa, una guerra continuata anche dopo la sua fine, con
una orrenda catena di crimini rimasti impuniti, perché ormai i
comunisti, non solo nella cultura, ma nella magistratura, nelle forze
dell’ordine, nella politica esercitavano una egemonia di fatto. Essi si
erano impadroniti della Resistenza, avevano dettato la Costituzione (che
Silvio Berlusconi avrebbe definito intanto “sovietica”), e ricattavano
la DC, e i poteri costituiti, impedendo il perseguimento dei crimini dei
partigiani. Dei quali, intanto, si minimizzava il peso sul piano
militare; anzi, si arrivò a giudicare dannose le loro azioni,
interpretando le tante, troppe, stragi nazifasciste come nient’altro che
comprensibili reazioni. Dunque la Resistenza, era stata inutile sul
piano militare, in quanto l’Italia, naturalmente, fu liberata dagli
Alleati angloamericani, e addirittura dannosa sul piano politico e
sociale, sia perché procurò morte e dolore alle popolazioni, sia perché,
d’altro canto, legittimò il Partito comunista a governare l’Italia
(cominciando dalle amministrazioni locali…).
Era ormai partito
davvero in grande stile, l’attacco alla Resistenza, e all’antifascismo, e
in vero alla stessa fisionomia democratica della Repubblica, con quel
suo straordinario documento fondativo che è la Costituzione, frutto di
un intenso lavoro da parte dei “padri costituenti” (andate a leggere
quei dibattiti del 1946-’47: che ricchezza, che straordinaria levatura
avevano quegli uomini e quelle donne!): non era perfetta, e risentiva
del clima, della necessità di impedire un ritorno alla dittatura,
ampliando le garanzie in tal senso. Quelle garanzie che oggi sono poste
sotto accusa, dai nuovi babari istituzionali, i quali si apprestano a
raccogliere il frutto dell’attacco alla Resistenza da parte di un
manipolo di mestieranti della penna, privi, del benché minimo rigore
storico, della più elementare serietà deontologica.
Ora, in
barba ai Pansa, e ai tanti suoi predecessori e successori, noi comunità
scientifica, noi comunità intellettuale, siamo da tempo, almeno un
trentennio, impegnati, ben oltre la retorica resistenzialistica, ma
dobbiamo riconoscere che non abbiamo avuto abbastanza forza e capacità
di comunicazione per rintuzzare davvero l’attacco dei rovescisti, e ciò
malgrado i progressi della ricerca storica e del dibattito
storiografico. Oggi, noi sappiamo che la lotta di liberazione fu
fenomeno complesso e non senza contraddizioni. Eppure noi sappiamo, e lo
dico con la stessa enfasi (si parva licet) con cui Pasolini
scrisse il suo memorabile atto d’accusa alla classe politica
democristiana: “Io so, ma non ho le prove”. Noi sappiamo, ma non siamo
in grado di farlo sapere, di farlo diventare senso comune, come i nostri
avversaria sono riusciti da parte loro: noi sappiamo ma non siamo in
grado di impedire che lo si dimentichi. O se ne stravolga o sminuisca il
significato.
Perciò a costo di risultare retorici e ripetitivi,
non dobbiamo mancare, ogni anno, l’appuntamento col 25 Aprile. E in
queste giornate, ci tocca dire a chi lo abbia dimenticato, ripetere a
chi finge di non saperlo, di comunicare a chi non lo sappia, che la
Resistenza rappresentò davvero l’altra Italia. Si tratta di un
dato ormai irrefutabile, ma per quanti? Non tanto sono i saggi storici a
dircelo, ma è altro, che noi dovremmo valorizzare nella sua
incommensurabile ricchezza: la memoria di coloro che nella Resistenza si
sono battuti, spesso immolati, o comunque vi hanno sacrificato affetti,
beni, tempo, carriera, giovinezza. Coloro che, in particolare, hanno
lasciato una testimonianza imperitura nelle Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana (e, sul piano internazionale, le Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea: quella sì, era un’altra Europa!)
Da
questo punto di vista, nessun “rovescismo” può cancellare il
significato della Resistenza, atto davvero di Liberazione, di creazione
di un nuova Italia, evento e processo che tentò di ribaltare tutto
quanto aveva rappresentato il fascismo. È davvero irredimibile il nostro
debito verso quegli eroi perlopiù sconosciuti (per caso, per scelta,
per necessità), i cui nomi a stento si leggono sulle sbiadite targhe
delle nostre strade, davanti alle quali le amministrazioni comunali o le
sezioni dell’ANPI mettono un fiore pietoso ad ogni ricorrenza del 25
Aprile. Ma anche allora nessuno, tranne qualche vecchio (sempre meno
numerosi, anche per le implacabili leggi della biologia), alza la testa,
a gettare una distratta occhiata, rapida, specie quando quei fiori sono
freschi: la prima cosa che ci colpisce è la varietà di collocazione
sociale, con una netta prevalenza dei ceti popolari: operaio, tipografo,
tramviere, impiegato, studente, insegnante, ferroviere, artigiano,
manovale, casalinga, pettinatrice, sarta… Il secondo elemento che balza
all’occhio è l’età: ad essere «barbaramente trucidati» – come spesso si
esprime il canonico stile marmoreo – sono fanciulli (dai 13-14 anni in
su) o poco più che tali; gente semplice, umile, ma determinata e forte.
Certo,
non possiamo dimenticare, la frase di Cesare Pavese: “ogni guerra è una
guerra civile” e che i morti, tutti i morti, sono ugualmente degni di
pietà; tuttavia va ribadito che è stata la guerra partigiana a dare
forma, voce e respiro ad un Paese al quale vent’anni di dittatura
avevano tolto il respiro, con quella catastrofe finale di una guerra
mostruosa, le cui conseguenze ancora l’Europa intera sta pagando, a
carissimo prezzo. Dobbiamo ribadirlo, in questa Italia attratta dalla
seduzione della smemorizzazione collettiva oppure di una memoria
ottusamente parificata e pacificata, e, soprattutto, avviata su una
china pericolosa, che giorno dopo giorno fa intravedere scenari vieppiù
preoccupanti. Specialmente oggi, quando, di nuovo, con protervia, dalla
parte di un insieme di forze che sembra non lasciare scampo a chi la
pensi diversamente, si sta portando il più massiccio e sistematico
attacco mai tentato alla Costituzione, e, in realtà, allo Stato sociale,
che è il vero obiettivo, anche se rimane sullo sfondo. In quanto questo
è il cuore del processo della “postdemocrazia”: il tentativo di
cancellare le conquiste dello Stato sociale. Ossia quell’insieme di
tutele, di garanzie, di diritti che un secolo e mezzo di lotte avevano
assicurato ai ceti subalterni, ai soggetti deboli, alle classi
deprivilegiate della società. Ora, in nome della modernità, con
l’ulteriore preziosa scusante (un’aggravante) della “crisi”, in un
battibaleno si vuole smantellare tutto ciò che si era ottenuto,
lentamente, faticosamente, e quasi sempre dolorosamente. Le pretese
leggi ferree dell’economia, o gli asseriti (come indefettibili) dettami
di Bruxelles (“ce lo chiede l’Europa”), sono diventate una ideologia di
straordinaria efficacia per sconfiggere, in una prospettiva di lungo
periodo, le riottose masse subalterne.
Si
tratta in realtà di un processo cominciato sulla scena delle società
liberali, capitalisticamente fondate, fin dagli anni ‘70 del sec. XX;
che ha trovato un punto fondamentale nell’era di Thatcher e Reagan, poi
ripresa e rilanciata negli anni ’90, dopo il “crollo del Muro” di
Berlino. Un processo sovranazionale che prosegue, incessante, e che sta
svuotando le democrazie, ma che in Italia assume caratteri peculiari,
perché si sa, siamo specialisti della commedia, non della tragedia.
Persino il fascismo, la maggiore catastrofe nazionale, ebbe tratti da
operetta, da farsa, comici. Da Berlusconi a Renzi, il catalogo è presto
fatto; e farsa e tragedia si mescolano nei due personaggi e nel loro
corteo, dove i nani e le ballerine, sempre presenti, vanno per mano con
la nuova, pericolosissima categoria di devastatori, “i tecnici”.
Privatizzare, cancellare il pubblico, sostituendolo col privato, in una
insopportabile retorica della governabilità (propaggine del decisionismo
craxian), dell’efficienza e dello Stato minimo (lo “Stato leggero”,
Renzi dixit) della velocità (con il postfuturista fiorentino).
Ma
il prerequisito per questo disegno, è lo smantellamento della
Costituzione, cominciando dai dettagli, per finire ai princìpi. Del
resto la manomissione era cominciata già alcuni anni fa, nel finale di
partita del II Governo Prodi, e poi è proseguita sotto Monti, con
l’immissione del pareggio di bilancio nel dettato costituzionale.
Un’aberrazione giuridica, una mostruosità politica e sociale. E ora,
dopo qualche altro “ritocco”, si arricchisce di una legge elettorale
peggiore del vituperato “Porcellum”, e della bella trovata del Senato
non elettivo. Agghiacciante.
Con lo scorrere dei giorni,
l’attacco è diventato furibondo. Velocità. Velocità. Velocità… E non si
può andare tanto per il sottile. Guai a chi mette ostacoli. Guai a chi
si attarda a discutere su un documento vecchio, la Costituzione, che è
manifestamente (ci si ripete da mane a sera) da cambiare, anche se per
ora si farà finta di conservarne una parte. Basta discutere, dunque. Il
capo ha deciso, perché ha già discusso, e ha già concertato.
E
con chi è stato concertato l’attacco alla Carta? Con l’avversario! Il
quale, non più alla guida del governo, anzi, da condannato escluso dalle
cariche pubbliche, non candidabile in tornate elettorali, contratta
niente meno che la riforma della Costituzione. E a chi si affida per la
messa a punto del “programma di riforme” istituzionali, il giovane ex
democristiano, finito, a furor del suo popolo, alla testa del Partito
democratico? La sua fonte di sapere giuridico è una giovane signora,
tale Boschi, figura eminente del “cerchio magico” di Matteo Renzi
(“Huffington Post” dixit). La signora Boschi, a dispetto dell’età
(classe 1981) ha avuto lo scranno di “Ministro per le riforme” grazie al
possesso di uno straordinario atout: una laurea, addirittura
in Giurisprudenza, ma con un merito politico indubitabile: ha coordinato
(con altre due signore) la campagna elettorale del suo mentore
fiorentino.
Scriveva pochi giorni fa, sul Manifesto Massimo
Villone, uno tra i migliori (e indipendenti) esperti di Diritto
costituzionale, che occorrerebbe istituire un albo dei costituzionalisti
per discettare di “riforme” del dettato costituzionale. Era una
provocazione, ma davanti all’ignoranza abissale di ministri, davanti al
piegarsi dei commentatori agli interessi degli inserzionisti (i veri
padroni dei media), davanti alla subordinazione passiva dei “tecnici”,
dei “competenti”, davanti agli ordini di scuderia, provenienti dalla
coalizione di potere, che stabilisce altresì la corrente di pensiero
alla quale tutti devono collocarsi, pena l’isolamento e addirittura il
silenzio, ebbene quella provocazione appare sacrosanta.
Come ho
già scritto e detto altre volte, se tutto questo è “riforma”, noi
dobbiamo avere il coraggio di dichiararci per la conservazione. E
dunque, ritorniamo a quel galantuomo di Francesco Saverio Borrelli:
“Resistere, resistere, resistere, come sulla linea del Piave”. Eppure
chiediamoci: basta, oggi, resistere? O non si deve contrattaccare?
Ognuno con le sue armi. Per ora siamo ancora alle armi della critica.
Per ora rimane ancora un presidio, che è la Costituzione (prima che la
offendano irrimediabilmente), che è l’indipendenza della Magistratura,
che è la possibilità di comunicare, di fare (contro)informazione, di
insegnare in modo ancora libero, almeno relativamente.
Ma,
chissà, se un giorno, davanti all’arroganza che diviene prepotenza;
davanti all’ignoranza al potere che pretende di guidare la cultura e
l’istruzione; davanti all’ingiustizia trasformata in legge; davanti a un
sistema fiscale iniquo e inefficiente; davanti alla mostruosa evidenza
della sperequazione sociale; davanti alle sedicenti “Grandi Opere”
distruggitrici, quanto inutili (tranne che alla Grande Speculazione);
davanti alla guerra chiamata pace; davanti ai potentati sovranazionali
che si impadroniscono delle risorse materiali, e che privatizzano i”
beni comuni”, mentre tentano di mettere il loro logo sulla nostra
intelligenza, penetrando anche nei santuari del pensiero critico, come
le nostre università, costringendo alla chiusura, con il pretesto della
crisi finanziaria, editori e testate giornalistiche indipendenti,
sostituendo librerie con enormi bookshop anonimi (di libri o di
scarpe fa lo stesso), tagliando i fondi a biblioteche ed archivi, a
musei e agli istituti di cultura; davanti alla progressiva,
inarrestabile devastazione dell’ambiente, del paesaggio, e alla
mercificazione del patrimonio artistico; davanti a una democrazia che
rinuncia pezzo dopo pezzo a se stessa, trasformandosi in dittatura;
allora, forse, non saremo costretti a prendere esempio, ancora, dai
nostri partigiani?
(25 aprile 2014)
di Angelo d’Orsi
“Resistere, resistere, resistere…”. Era il 12 gennaio 2002, a Milano, quando Francesco Saverio Borrelli tenne il suo ultimo discorso inaugurale dell’anno giudiziario, nelle vesti (toga nera in segno di lutto) di procuratore della Repubblica di Milano. Resistere come sulla linea del Piave: precisò, con riferimento che rinviava alla sua formazione di liberale democratico. Fu allora che i rappresentanti del governo (ministro della Giustizia l’ingegnere Roberto Castelli, della Lega Nord Padania, il cui principale titolo intellettuale era probabilmente la collaborazione alla rivista Motociclismo) lasciarono l’aula del Palazzo di Giustizia, sdegnati. Quanto al presidente del Consiglio dell’epoca era un signore che aveva (e che ha) innumerevoli conti aperti con la Giustizia.
Era difficile resistere a una siffatta masnada, e Borrelli (a cui non è stato concesso il laticlavio: ma quanto l’avrebbe meritato: siamo ancora in tempo, caro Presidente della Repubblica…) aveva guidato la resistenza.
Un filo univa quella resistenza giuridica, in nome della legalità offesa, della giustizia vilipesa, della uguaglianza dei cittadini davanti alla legge: resistenza alla prepotenza, resistenza al canagliume, resistenza alla pretesa dell’impunità.
Eppure quel resistere iterato, tre volte come in un salmo laico, rinviava ad altre, più epiche e drammatiche vicende, quelle che videro l’Italia divisa, ancora una volta, in due blocchi, con un “centro” la cui consistenza rimane tutta da acclarare e definire. Quel resistere richiamava all’azione attiva, dunque non meramente passiva, di “resistenza” nel senso debole, quanti non volevano essere complici e neppure vittime inerti del degrado dell’etica pubblica, della trasformazione della democrazia, in senso plebiscitario e bonapartistico. Di quanti, insomma, non volevano piegarsi all’idea che l’Italia per la quale molti decenni avanti, uomini e donne, avevano combattuto. Un filo, insomma, univa, idealmente, quella nuova resistenza a quella storica: ed era un implicito riconoscimento, un atto d’amore per chi, allora, aveva tentato, vittoriosamente, di fermare il nazifascismo, snidando gli indifferenti, e ridando dignità a un popolo, che, grazie a quelle minoranze coraggiose, poté giungere alla pace del dopo-fascismo anche (sebbene, certo, non solo) per “armi proprie”, usando una celebre espressione di Niccolò Machiavelli.
In fondo, ne fosse cosciente o meno, Borrelli stava evocando quella epopea, mostrandone la perenne validità, e, insieme, la sempiterna necessità. La Resistenza, con la maiuscola, aveva attraversato stagioni diverse, oscillando dalla celebrazione alla demonizzazione. Anzi, proprio la celebrazione, quella più retorica, e vuota di significato, aveva finito per diventare una delle involontarie, ma potenti chiavi di spiegazione del diffuso rigetto della Resistenza nel senso comune, di cui politici e giornalisti e pseudostorici si sono fatti interpreti, nel corso dei decenni. Aveva generato, insomma, fastidio, il mito resistenziale: la divisione netta in due Italie, un’esaltazione acritica e priva di mediazioni del significato dell’attività dei partigiani, la contrapposizione semplicistica, anche se retoricamente efficace, tra il bene e il male (“Tutto il bene avevamo nel cuore / Tutto il male avevamo di fronte”, canta Italo Calvino, musicato da Sergio Liberovici), secondo la canonica interpretazione dicotomica che è nel cuore della propaganda di guerra.
La memorialistica aveva contribuito potentemente a creare il mito resistenziale, stabilendo una continuità tra antifascismo esplicito del periodo 1919-26, antifascismo implicito, nicodemitico, nascosto, esiliato nel periodo 1926-1943, e ritorno dell’antifascismo esplicito, dichiarato e in armi del ‘43-45. Una perfetta catena in cui l’un anello giustificava l’altro, prescindendo da una effettiva ricerca della verità.
La Resistenza, il “25 Aprile”, tra celebrazioni sempre più ripetitive, spesso insulse, anche per la scadente qualità dei celebranti, e per il loro passato non sempre specchiato dal punto di vista della militanza antifascista, alla lunga era divenuta un oggetto decorativo.
Nel ’68 si verificò, su vasto raggio, uno scontro fra la generazione della Resistenza e i suoi figli, che accusavano i padri di aver non solo tradito, ma anche dimenticato i valori per i quali avevano combattuto o dichiaravano di averlo fatto. Fu uno scontro a tratti aspro, e le accuse mosse ai “vecchi” dai “giovani” erano spesso ingiuste, ma qualche elemento di verità emergeva, e fu quella la base anche per avviare una rivisitazione del tema Fascismo/Antifascismo. Ciò favorì, al di là delle polemiche, una nuova stagione di studi, in cui il tema del consenso incominciò ad emergere, sulla base delle sollecitazioni provenienti da Renzo De Felice, sia pure in una impostazione che contestammo allora e che contesto oggi. Quel tema che era stato forse il problema principale: aveva fatto scuola la posizione crociana della parentesi; sicché mentre da una parte emergeva uno sconfortante panorama di un paese dove nessuno era stato veramente fascista, dall’altra parte, da parte dei nostalgici (si pensi a “Il Borghese”, come esempio paradigmatico), si proponeva un panorama esattamente rovesciato e contrario: tutti fascisti, dunque tutti colpevoli, dunque nessun colpevole.
Il fatto è che in Italia non c’era stata fino ad allora, né ci fu dopo, una seria presa di coscienza della stagione fascista: non sono mancati gli studi, ma è stato troppo carente una assunzione di responsabilità, una franca ammissione da parte di coloro che, in campo politico, imprenditoriale, intellettuale, avevano avuto compromessi di varia entità con il regime.
Più o meno contestualmente alla “smitizzazione” della Resistenza, e alle nuove ricerche storiche, perlopiù favorite dagli Istituti locali, per la storia del Movimento di Liberazione, iniziò e si sviluppò con i mefitici anni Ottanta, accentuandosi nei Novanta, un attacco a tutto campo, all’antifascismo, che aveva in realtà un obiettivo non così diverso da quello che oggi hanno i “riformatori”, e che le menti oneste e lucide di quella stagione, poche, in vero (ricordo un nome per tutti: Alessandro Galante Garrone), avevano denunciato: attaccare l’antifascismo (e il comunismo italiano, in particolare), per svilire la Resistenza, ma il fine ultimo era contestare la Costituzione repubblicana.
Era quello il vero obiettivo politico: non solo dell’ondata revisionistica, ma anche di quel gran parlare di “riforme” che nella infelice epoca craxiana, dentro e fuori la P2, si fece: ed era un discorso rovesciato rispetto a quello di dieci-vent’anni prima, quando a parlare di riforme era la sinistra, che con quella parola chiedeva niente altro che la piena attuazione del dettato costituzionale; rovesciando i termini della questione, ora i riformisti chiedevano esattamente il contrario, chiedevano di manomettere la Costituzione. E hanno fatto scuola: da Berlusconi ai suoi avversari, tutta la classe dirigente dell’attuale Partito democratico, hanno lavorato con questo essenziale obiettivo: tarpare le ali alla Costituzione.
Ebbe allora corso e fortuna crescente l’invettiva contro la “vulgata antifascista”, mentre si lavorava per creare un senso comune per cui torti e ragioni fossero spartiti “equamente”, magari in nome di una “pacificazione” nella quale perseguitati e persecutori, eroi e traditori, spie e patrioti autentici siano riassunti in un’unica lapide, magari con la scritta “morti per la patria”. O, peggio ancora, vorrebbero, riprendendo la tesi di Renzo De Felice, enfatizzare la dimensione e il significato della cosiddetta “zona grigia”: gli italiani che non si schierarono, quelli che rimasero a guardare, quella parte del Paese che non fu né con i repubblichini né con i partigiani. Ma la zona grigia, l’Italia che non si schierava era quella che voleva la fine della guerra: un desiderio, un grido che rinviava decisamente all’antifascismo; e quella stessa Italia era quella che proteggeva i resistenti attivi.
Un involontario contributo giunse dal libro di Claudio Pavone, “complice” di uno sdoganamento: la Resistenza come “guerra civile” con il suo libro così intitolato del 1991. Anche se nell’analisi di questo grande studioso, che come i due suoi grandi predecessori, Roberto Battaglia e Guido Quazza, alla Resistenza aveva partecipato direttamente, si parla di tre guerre fra il ’43 e il ’45: 1) una guerra di liberazione nazionale; 2) una guerra sociale: lotta di classe, per un altro genere di liberazione, non più dal nemico esterno, ma dal nemico interno, il nemico di classe; 3) una guerra civile: italiani contro italiani, antifascisti contro fascisti, guerra di ideali e di interessi insieme, di valori e di opzioni politiche.
Le tre guerre, si intrecciavano, naturalmente. Ma nel mainstream fu colta, arbitrariamente, solo la guerra civile, già cavallo di battaglia della pseudostoriografia e della pubblicistica “nostalgica” dell’immediato dopoguerra. E da ciò giunse un incentivo alla nuova ondata revisionistica, che sarebbe poi diventata rovescistica, per servirmi di un termine che mi vanto di aver coniato. Giornalismo, letteratura, memorialistica fecero a gara per celebrare “i ragazzi di Salò”, equiparandoli di fatto o di diritto, nella invocata “memoria condivisa”, ai partigiani, contro i quali la campagna di fango era cominciata e diventava via via più aggressiva. L’arrivo dei libri di Pansa, cominciando dal primo (2003) fu la ciliegia sulla torta. E il loro successo commerciale fu il segnale che la situazione politica e culturale del Paese stava scivolando in una sorta di buco nero. Non si spiega senza questo contesto: pochi fecero caso che la principale fonte di quelle “opere” erano quelle di Giorgio Pisanò, già militante della RSI, giornalista e politico nel MSI (di cui fu anche rappresentante al Senato).
Come per Pavone, così per Pansa, la provenienza politica dell’autore (dall’area progressista), fu artatamente usata come “conferma” che quella del ’43-45 era stata “soltanto” una guerra civile; e, con Pansa, una guerra continuata anche dopo la sua fine, con una orrenda catena di crimini rimasti impuniti, perché ormai i comunisti, non solo nella cultura, ma nella magistratura, nelle forze dell’ordine, nella politica esercitavano una egemonia di fatto. Essi si erano impadroniti della Resistenza, avevano dettato la Costituzione (che Silvio Berlusconi avrebbe definito intanto “sovietica”), e ricattavano la DC, e i poteri costituiti, impedendo il perseguimento dei crimini dei partigiani. Dei quali, intanto, si minimizzava il peso sul piano militare; anzi, si arrivò a giudicare dannose le loro azioni, interpretando le tante, troppe, stragi nazifasciste come nient’altro che comprensibili reazioni. Dunque la Resistenza, era stata inutile sul piano militare, in quanto l’Italia, naturalmente, fu liberata dagli Alleati angloamericani, e addirittura dannosa sul piano politico e sociale, sia perché procurò morte e dolore alle popolazioni, sia perché, d’altro canto, legittimò il Partito comunista a governare l’Italia (cominciando dalle amministrazioni locali…).
Era ormai partito davvero in grande stile, l’attacco alla Resistenza, e all’antifascismo, e in vero alla stessa fisionomia democratica della Repubblica, con quel suo straordinario documento fondativo che è la Costituzione, frutto di un intenso lavoro da parte dei “padri costituenti” (andate a leggere quei dibattiti del 1946-’47: che ricchezza, che straordinaria levatura avevano quegli uomini e quelle donne!): non era perfetta, e risentiva del clima, della necessità di impedire un ritorno alla dittatura, ampliando le garanzie in tal senso. Quelle garanzie che oggi sono poste sotto accusa, dai nuovi babari istituzionali, i quali si apprestano a raccogliere il frutto dell’attacco alla Resistenza da parte di un manipolo di mestieranti della penna, privi, del benché minimo rigore storico, della più elementare serietà deontologica.
Ora, in barba ai Pansa, e ai tanti suoi predecessori e successori, noi comunità scientifica, noi comunità intellettuale, siamo da tempo, almeno un trentennio, impegnati, ben oltre la retorica resistenzialistica, ma dobbiamo riconoscere che non abbiamo avuto abbastanza forza e capacità di comunicazione per rintuzzare davvero l’attacco dei rovescisti, e ciò malgrado i progressi della ricerca storica e del dibattito storiografico. Oggi, noi sappiamo che la lotta di liberazione fu fenomeno complesso e non senza contraddizioni. Eppure noi sappiamo, e lo dico con la stessa enfasi (si parva licet) con cui Pasolini scrisse il suo memorabile atto d’accusa alla classe politica democristiana: “Io so, ma non ho le prove”. Noi sappiamo, ma non siamo in grado di farlo sapere, di farlo diventare senso comune, come i nostri avversaria sono riusciti da parte loro: noi sappiamo ma non siamo in grado di impedire che lo si dimentichi. O se ne stravolga o sminuisca il significato.
Perciò a costo di risultare retorici e ripetitivi, non dobbiamo mancare, ogni anno, l’appuntamento col 25 Aprile. E in queste giornate, ci tocca dire a chi lo abbia dimenticato, ripetere a chi finge di non saperlo, di comunicare a chi non lo sappia, che la Resistenza rappresentò davvero l’altra Italia. Si tratta di un dato ormai irrefutabile, ma per quanti? Non tanto sono i saggi storici a dircelo, ma è altro, che noi dovremmo valorizzare nella sua incommensurabile ricchezza: la memoria di coloro che nella Resistenza si sono battuti, spesso immolati, o comunque vi hanno sacrificato affetti, beni, tempo, carriera, giovinezza. Coloro che, in particolare, hanno lasciato una testimonianza imperitura nelle Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana (e, sul piano internazionale, le Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea: quella sì, era un’altra Europa!)
Da questo punto di vista, nessun “rovescismo” può cancellare il significato della Resistenza, atto davvero di Liberazione, di creazione di un nuova Italia, evento e processo che tentò di ribaltare tutto quanto aveva rappresentato il fascismo. È davvero irredimibile il nostro debito verso quegli eroi perlopiù sconosciuti (per caso, per scelta, per necessità), i cui nomi a stento si leggono sulle sbiadite targhe delle nostre strade, davanti alle quali le amministrazioni comunali o le sezioni dell’ANPI mettono un fiore pietoso ad ogni ricorrenza del 25 Aprile. Ma anche allora nessuno, tranne qualche vecchio (sempre meno numerosi, anche per le implacabili leggi della biologia), alza la testa, a gettare una distratta occhiata, rapida, specie quando quei fiori sono freschi: la prima cosa che ci colpisce è la varietà di collocazione sociale, con una netta prevalenza dei ceti popolari: operaio, tipografo, tramviere, impiegato, studente, insegnante, ferroviere, artigiano, manovale, casalinga, pettinatrice, sarta… Il secondo elemento che balza all’occhio è l’età: ad essere «barbaramente trucidati» – come spesso si esprime il canonico stile marmoreo – sono fanciulli (dai 13-14 anni in su) o poco più che tali; gente semplice, umile, ma determinata e forte.
Certo, non possiamo dimenticare, la frase di Cesare Pavese: “ogni guerra è una guerra civile” e che i morti, tutti i morti, sono ugualmente degni di pietà; tuttavia va ribadito che è stata la guerra partigiana a dare forma, voce e respiro ad un Paese al quale vent’anni di dittatura avevano tolto il respiro, con quella catastrofe finale di una guerra mostruosa, le cui conseguenze ancora l’Europa intera sta pagando, a carissimo prezzo. Dobbiamo ribadirlo, in questa Italia attratta dalla seduzione della smemorizzazione collettiva oppure di una memoria ottusamente parificata e pacificata, e, soprattutto, avviata su una china pericolosa, che giorno dopo giorno fa intravedere scenari vieppiù preoccupanti. Specialmente oggi, quando, di nuovo, con protervia, dalla parte di un insieme di forze che sembra non lasciare scampo a chi la pensi diversamente, si sta portando il più massiccio e sistematico attacco mai tentato alla Costituzione, e, in realtà, allo Stato sociale, che è il vero obiettivo, anche se rimane sullo sfondo. In quanto questo è il cuore del processo della “postdemocrazia”: il tentativo di cancellare le conquiste dello Stato sociale. Ossia quell’insieme di tutele, di garanzie, di diritti che un secolo e mezzo di lotte avevano assicurato ai ceti subalterni, ai soggetti deboli, alle classi deprivilegiate della società. Ora, in nome della modernità, con l’ulteriore preziosa scusante (un’aggravante) della “crisi”, in un battibaleno si vuole smantellare tutto ciò che si era ottenuto, lentamente, faticosamente, e quasi sempre dolorosamente. Le pretese leggi ferree dell’economia, o gli asseriti (come indefettibili) dettami di Bruxelles (“ce lo chiede l’Europa”), sono diventate una ideologia di straordinaria efficacia per sconfiggere, in una prospettiva di lungo periodo, le riottose masse subalterne.
Si tratta in realtà di un processo cominciato sulla scena delle società liberali, capitalisticamente fondate, fin dagli anni ‘70 del sec. XX; che ha trovato un punto fondamentale nell’era di Thatcher e Reagan, poi ripresa e rilanciata negli anni ’90, dopo il “crollo del Muro” di Berlino. Un processo sovranazionale che prosegue, incessante, e che sta svuotando le democrazie, ma che in Italia assume caratteri peculiari, perché si sa, siamo specialisti della commedia, non della tragedia. Persino il fascismo, la maggiore catastrofe nazionale, ebbe tratti da operetta, da farsa, comici. Da Berlusconi a Renzi, il catalogo è presto fatto; e farsa e tragedia si mescolano nei due personaggi e nel loro corteo, dove i nani e le ballerine, sempre presenti, vanno per mano con la nuova, pericolosissima categoria di devastatori, “i tecnici”. Privatizzare, cancellare il pubblico, sostituendolo col privato, in una insopportabile retorica della governabilità (propaggine del decisionismo craxian), dell’efficienza e dello Stato minimo (lo “Stato leggero”, Renzi dixit) della velocità (con il postfuturista fiorentino).
Ma il prerequisito per questo disegno, è lo smantellamento della Costituzione, cominciando dai dettagli, per finire ai princìpi. Del resto la manomissione era cominciata già alcuni anni fa, nel finale di partita del II Governo Prodi, e poi è proseguita sotto Monti, con l’immissione del pareggio di bilancio nel dettato costituzionale. Un’aberrazione giuridica, una mostruosità politica e sociale. E ora, dopo qualche altro “ritocco”, si arricchisce di una legge elettorale peggiore del vituperato “Porcellum”, e della bella trovata del Senato non elettivo. Agghiacciante.
Con lo scorrere dei giorni, l’attacco è diventato furibondo. Velocità. Velocità. Velocità… E non si può andare tanto per il sottile. Guai a chi mette ostacoli. Guai a chi si attarda a discutere su un documento vecchio, la Costituzione, che è manifestamente (ci si ripete da mane a sera) da cambiare, anche se per ora si farà finta di conservarne una parte. Basta discutere, dunque. Il capo ha deciso, perché ha già discusso, e ha già concertato.
E con chi è stato concertato l’attacco alla Carta? Con l’avversario! Il quale, non più alla guida del governo, anzi, da condannato escluso dalle cariche pubbliche, non candidabile in tornate elettorali, contratta niente meno che la riforma della Costituzione. E a chi si affida per la messa a punto del “programma di riforme” istituzionali, il giovane ex democristiano, finito, a furor del suo popolo, alla testa del Partito democratico? La sua fonte di sapere giuridico è una giovane signora, tale Boschi, figura eminente del “cerchio magico” di Matteo Renzi (“Huffington Post” dixit). La signora Boschi, a dispetto dell’età (classe 1981) ha avuto lo scranno di “Ministro per le riforme” grazie al possesso di uno straordinario atout: una laurea, addirittura in Giurisprudenza, ma con un merito politico indubitabile: ha coordinato (con altre due signore) la campagna elettorale del suo mentore fiorentino.
Scriveva pochi giorni fa, sul Manifesto Massimo Villone, uno tra i migliori (e indipendenti) esperti di Diritto costituzionale, che occorrerebbe istituire un albo dei costituzionalisti per discettare di “riforme” del dettato costituzionale. Era una provocazione, ma davanti all’ignoranza abissale di ministri, davanti al piegarsi dei commentatori agli interessi degli inserzionisti (i veri padroni dei media), davanti alla subordinazione passiva dei “tecnici”, dei “competenti”, davanti agli ordini di scuderia, provenienti dalla coalizione di potere, che stabilisce altresì la corrente di pensiero alla quale tutti devono collocarsi, pena l’isolamento e addirittura il silenzio, ebbene quella provocazione appare sacrosanta.
Come ho già scritto e detto altre volte, se tutto questo è “riforma”, noi dobbiamo avere il coraggio di dichiararci per la conservazione. E dunque, ritorniamo a quel galantuomo di Francesco Saverio Borrelli: “Resistere, resistere, resistere, come sulla linea del Piave”. Eppure chiediamoci: basta, oggi, resistere? O non si deve contrattaccare? Ognuno con le sue armi. Per ora siamo ancora alle armi della critica. Per ora rimane ancora un presidio, che è la Costituzione (prima che la offendano irrimediabilmente), che è l’indipendenza della Magistratura, che è la possibilità di comunicare, di fare (contro)informazione, di insegnare in modo ancora libero, almeno relativamente.
Ma, chissà, se un giorno, davanti all’arroganza che diviene prepotenza; davanti all’ignoranza al potere che pretende di guidare la cultura e l’istruzione; davanti all’ingiustizia trasformata in legge; davanti a un sistema fiscale iniquo e inefficiente; davanti alla mostruosa evidenza della sperequazione sociale; davanti alle sedicenti “Grandi Opere” distruggitrici, quanto inutili (tranne che alla Grande Speculazione); davanti alla guerra chiamata pace; davanti ai potentati sovranazionali che si impadroniscono delle risorse materiali, e che privatizzano i” beni comuni”, mentre tentano di mettere il loro logo sulla nostra intelligenza, penetrando anche nei santuari del pensiero critico, come le nostre università, costringendo alla chiusura, con il pretesto della crisi finanziaria, editori e testate giornalistiche indipendenti, sostituendo librerie con enormi bookshop anonimi (di libri o di scarpe fa lo stesso), tagliando i fondi a biblioteche ed archivi, a musei e agli istituti di cultura; davanti alla progressiva, inarrestabile devastazione dell’ambiente, del paesaggio, e alla mercificazione del patrimonio artistico; davanti a una democrazia che rinuncia pezzo dopo pezzo a se stessa, trasformandosi in dittatura; allora, forse, non saremo costretti a prendere esempio, ancora, dai nostri partigiani?
(25 aprile 2014)
“Resistere, resistere, resistere…”. Era il 12 gennaio 2002, a Milano, quando Francesco Saverio Borrelli tenne il suo ultimo discorso inaugurale dell’anno giudiziario, nelle vesti (toga nera in segno di lutto) di procuratore della Repubblica di Milano. Resistere come sulla linea del Piave: precisò, con riferimento che rinviava alla sua formazione di liberale democratico. Fu allora che i rappresentanti del governo (ministro della Giustizia l’ingegnere Roberto Castelli, della Lega Nord Padania, il cui principale titolo intellettuale era probabilmente la collaborazione alla rivista Motociclismo) lasciarono l’aula del Palazzo di Giustizia, sdegnati. Quanto al presidente del Consiglio dell’epoca era un signore che aveva (e che ha) innumerevoli conti aperti con la Giustizia.
Era difficile resistere a una siffatta masnada, e Borrelli (a cui non è stato concesso il laticlavio: ma quanto l’avrebbe meritato: siamo ancora in tempo, caro Presidente della Repubblica…) aveva guidato la resistenza.
Un filo univa quella resistenza giuridica, in nome della legalità offesa, della giustizia vilipesa, della uguaglianza dei cittadini davanti alla legge: resistenza alla prepotenza, resistenza al canagliume, resistenza alla pretesa dell’impunità.
Eppure quel resistere iterato, tre volte come in un salmo laico, rinviava ad altre, più epiche e drammatiche vicende, quelle che videro l’Italia divisa, ancora una volta, in due blocchi, con un “centro” la cui consistenza rimane tutta da acclarare e definire. Quel resistere richiamava all’azione attiva, dunque non meramente passiva, di “resistenza” nel senso debole, quanti non volevano essere complici e neppure vittime inerti del degrado dell’etica pubblica, della trasformazione della democrazia, in senso plebiscitario e bonapartistico. Di quanti, insomma, non volevano piegarsi all’idea che l’Italia per la quale molti decenni avanti, uomini e donne, avevano combattuto. Un filo, insomma, univa, idealmente, quella nuova resistenza a quella storica: ed era un implicito riconoscimento, un atto d’amore per chi, allora, aveva tentato, vittoriosamente, di fermare il nazifascismo, snidando gli indifferenti, e ridando dignità a un popolo, che, grazie a quelle minoranze coraggiose, poté giungere alla pace del dopo-fascismo anche (sebbene, certo, non solo) per “armi proprie”, usando una celebre espressione di Niccolò Machiavelli.
In fondo, ne fosse cosciente o meno, Borrelli stava evocando quella epopea, mostrandone la perenne validità, e, insieme, la sempiterna necessità. La Resistenza, con la maiuscola, aveva attraversato stagioni diverse, oscillando dalla celebrazione alla demonizzazione. Anzi, proprio la celebrazione, quella più retorica, e vuota di significato, aveva finito per diventare una delle involontarie, ma potenti chiavi di spiegazione del diffuso rigetto della Resistenza nel senso comune, di cui politici e giornalisti e pseudostorici si sono fatti interpreti, nel corso dei decenni. Aveva generato, insomma, fastidio, il mito resistenziale: la divisione netta in due Italie, un’esaltazione acritica e priva di mediazioni del significato dell’attività dei partigiani, la contrapposizione semplicistica, anche se retoricamente efficace, tra il bene e il male (“Tutto il bene avevamo nel cuore / Tutto il male avevamo di fronte”, canta Italo Calvino, musicato da Sergio Liberovici), secondo la canonica interpretazione dicotomica che è nel cuore della propaganda di guerra.
La memorialistica aveva contribuito potentemente a creare il mito resistenziale, stabilendo una continuità tra antifascismo esplicito del periodo 1919-26, antifascismo implicito, nicodemitico, nascosto, esiliato nel periodo 1926-1943, e ritorno dell’antifascismo esplicito, dichiarato e in armi del ‘43-45. Una perfetta catena in cui l’un anello giustificava l’altro, prescindendo da una effettiva ricerca della verità.
La Resistenza, il “25 Aprile”, tra celebrazioni sempre più ripetitive, spesso insulse, anche per la scadente qualità dei celebranti, e per il loro passato non sempre specchiato dal punto di vista della militanza antifascista, alla lunga era divenuta un oggetto decorativo.
Nel ’68 si verificò, su vasto raggio, uno scontro fra la generazione della Resistenza e i suoi figli, che accusavano i padri di aver non solo tradito, ma anche dimenticato i valori per i quali avevano combattuto o dichiaravano di averlo fatto. Fu uno scontro a tratti aspro, e le accuse mosse ai “vecchi” dai “giovani” erano spesso ingiuste, ma qualche elemento di verità emergeva, e fu quella la base anche per avviare una rivisitazione del tema Fascismo/Antifascismo. Ciò favorì, al di là delle polemiche, una nuova stagione di studi, in cui il tema del consenso incominciò ad emergere, sulla base delle sollecitazioni provenienti da Renzo De Felice, sia pure in una impostazione che contestammo allora e che contesto oggi. Quel tema che era stato forse il problema principale: aveva fatto scuola la posizione crociana della parentesi; sicché mentre da una parte emergeva uno sconfortante panorama di un paese dove nessuno era stato veramente fascista, dall’altra parte, da parte dei nostalgici (si pensi a “Il Borghese”, come esempio paradigmatico), si proponeva un panorama esattamente rovesciato e contrario: tutti fascisti, dunque tutti colpevoli, dunque nessun colpevole.
Il fatto è che in Italia non c’era stata fino ad allora, né ci fu dopo, una seria presa di coscienza della stagione fascista: non sono mancati gli studi, ma è stato troppo carente una assunzione di responsabilità, una franca ammissione da parte di coloro che, in campo politico, imprenditoriale, intellettuale, avevano avuto compromessi di varia entità con il regime.
Più o meno contestualmente alla “smitizzazione” della Resistenza, e alle nuove ricerche storiche, perlopiù favorite dagli Istituti locali, per la storia del Movimento di Liberazione, iniziò e si sviluppò con i mefitici anni Ottanta, accentuandosi nei Novanta, un attacco a tutto campo, all’antifascismo, che aveva in realtà un obiettivo non così diverso da quello che oggi hanno i “riformatori”, e che le menti oneste e lucide di quella stagione, poche, in vero (ricordo un nome per tutti: Alessandro Galante Garrone), avevano denunciato: attaccare l’antifascismo (e il comunismo italiano, in particolare), per svilire la Resistenza, ma il fine ultimo era contestare la Costituzione repubblicana.
Era quello il vero obiettivo politico: non solo dell’ondata revisionistica, ma anche di quel gran parlare di “riforme” che nella infelice epoca craxiana, dentro e fuori la P2, si fece: ed era un discorso rovesciato rispetto a quello di dieci-vent’anni prima, quando a parlare di riforme era la sinistra, che con quella parola chiedeva niente altro che la piena attuazione del dettato costituzionale; rovesciando i termini della questione, ora i riformisti chiedevano esattamente il contrario, chiedevano di manomettere la Costituzione. E hanno fatto scuola: da Berlusconi ai suoi avversari, tutta la classe dirigente dell’attuale Partito democratico, hanno lavorato con questo essenziale obiettivo: tarpare le ali alla Costituzione.
Ebbe allora corso e fortuna crescente l’invettiva contro la “vulgata antifascista”, mentre si lavorava per creare un senso comune per cui torti e ragioni fossero spartiti “equamente”, magari in nome di una “pacificazione” nella quale perseguitati e persecutori, eroi e traditori, spie e patrioti autentici siano riassunti in un’unica lapide, magari con la scritta “morti per la patria”. O, peggio ancora, vorrebbero, riprendendo la tesi di Renzo De Felice, enfatizzare la dimensione e il significato della cosiddetta “zona grigia”: gli italiani che non si schierarono, quelli che rimasero a guardare, quella parte del Paese che non fu né con i repubblichini né con i partigiani. Ma la zona grigia, l’Italia che non si schierava era quella che voleva la fine della guerra: un desiderio, un grido che rinviava decisamente all’antifascismo; e quella stessa Italia era quella che proteggeva i resistenti attivi.
Un involontario contributo giunse dal libro di Claudio Pavone, “complice” di uno sdoganamento: la Resistenza come “guerra civile” con il suo libro così intitolato del 1991. Anche se nell’analisi di questo grande studioso, che come i due suoi grandi predecessori, Roberto Battaglia e Guido Quazza, alla Resistenza aveva partecipato direttamente, si parla di tre guerre fra il ’43 e il ’45: 1) una guerra di liberazione nazionale; 2) una guerra sociale: lotta di classe, per un altro genere di liberazione, non più dal nemico esterno, ma dal nemico interno, il nemico di classe; 3) una guerra civile: italiani contro italiani, antifascisti contro fascisti, guerra di ideali e di interessi insieme, di valori e di opzioni politiche.
Le tre guerre, si intrecciavano, naturalmente. Ma nel mainstream fu colta, arbitrariamente, solo la guerra civile, già cavallo di battaglia della pseudostoriografia e della pubblicistica “nostalgica” dell’immediato dopoguerra. E da ciò giunse un incentivo alla nuova ondata revisionistica, che sarebbe poi diventata rovescistica, per servirmi di un termine che mi vanto di aver coniato. Giornalismo, letteratura, memorialistica fecero a gara per celebrare “i ragazzi di Salò”, equiparandoli di fatto o di diritto, nella invocata “memoria condivisa”, ai partigiani, contro i quali la campagna di fango era cominciata e diventava via via più aggressiva. L’arrivo dei libri di Pansa, cominciando dal primo (2003) fu la ciliegia sulla torta. E il loro successo commerciale fu il segnale che la situazione politica e culturale del Paese stava scivolando in una sorta di buco nero. Non si spiega senza questo contesto: pochi fecero caso che la principale fonte di quelle “opere” erano quelle di Giorgio Pisanò, già militante della RSI, giornalista e politico nel MSI (di cui fu anche rappresentante al Senato).
Come per Pavone, così per Pansa, la provenienza politica dell’autore (dall’area progressista), fu artatamente usata come “conferma” che quella del ’43-45 era stata “soltanto” una guerra civile; e, con Pansa, una guerra continuata anche dopo la sua fine, con una orrenda catena di crimini rimasti impuniti, perché ormai i comunisti, non solo nella cultura, ma nella magistratura, nelle forze dell’ordine, nella politica esercitavano una egemonia di fatto. Essi si erano impadroniti della Resistenza, avevano dettato la Costituzione (che Silvio Berlusconi avrebbe definito intanto “sovietica”), e ricattavano la DC, e i poteri costituiti, impedendo il perseguimento dei crimini dei partigiani. Dei quali, intanto, si minimizzava il peso sul piano militare; anzi, si arrivò a giudicare dannose le loro azioni, interpretando le tante, troppe, stragi nazifasciste come nient’altro che comprensibili reazioni. Dunque la Resistenza, era stata inutile sul piano militare, in quanto l’Italia, naturalmente, fu liberata dagli Alleati angloamericani, e addirittura dannosa sul piano politico e sociale, sia perché procurò morte e dolore alle popolazioni, sia perché, d’altro canto, legittimò il Partito comunista a governare l’Italia (cominciando dalle amministrazioni locali…).
Era ormai partito davvero in grande stile, l’attacco alla Resistenza, e all’antifascismo, e in vero alla stessa fisionomia democratica della Repubblica, con quel suo straordinario documento fondativo che è la Costituzione, frutto di un intenso lavoro da parte dei “padri costituenti” (andate a leggere quei dibattiti del 1946-’47: che ricchezza, che straordinaria levatura avevano quegli uomini e quelle donne!): non era perfetta, e risentiva del clima, della necessità di impedire un ritorno alla dittatura, ampliando le garanzie in tal senso. Quelle garanzie che oggi sono poste sotto accusa, dai nuovi babari istituzionali, i quali si apprestano a raccogliere il frutto dell’attacco alla Resistenza da parte di un manipolo di mestieranti della penna, privi, del benché minimo rigore storico, della più elementare serietà deontologica.
Ora, in barba ai Pansa, e ai tanti suoi predecessori e successori, noi comunità scientifica, noi comunità intellettuale, siamo da tempo, almeno un trentennio, impegnati, ben oltre la retorica resistenzialistica, ma dobbiamo riconoscere che non abbiamo avuto abbastanza forza e capacità di comunicazione per rintuzzare davvero l’attacco dei rovescisti, e ciò malgrado i progressi della ricerca storica e del dibattito storiografico. Oggi, noi sappiamo che la lotta di liberazione fu fenomeno complesso e non senza contraddizioni. Eppure noi sappiamo, e lo dico con la stessa enfasi (si parva licet) con cui Pasolini scrisse il suo memorabile atto d’accusa alla classe politica democristiana: “Io so, ma non ho le prove”. Noi sappiamo, ma non siamo in grado di farlo sapere, di farlo diventare senso comune, come i nostri avversaria sono riusciti da parte loro: noi sappiamo ma non siamo in grado di impedire che lo si dimentichi. O se ne stravolga o sminuisca il significato.
Perciò a costo di risultare retorici e ripetitivi, non dobbiamo mancare, ogni anno, l’appuntamento col 25 Aprile. E in queste giornate, ci tocca dire a chi lo abbia dimenticato, ripetere a chi finge di non saperlo, di comunicare a chi non lo sappia, che la Resistenza rappresentò davvero l’altra Italia. Si tratta di un dato ormai irrefutabile, ma per quanti? Non tanto sono i saggi storici a dircelo, ma è altro, che noi dovremmo valorizzare nella sua incommensurabile ricchezza: la memoria di coloro che nella Resistenza si sono battuti, spesso immolati, o comunque vi hanno sacrificato affetti, beni, tempo, carriera, giovinezza. Coloro che, in particolare, hanno lasciato una testimonianza imperitura nelle Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana (e, sul piano internazionale, le Lettere dei condannati a morte della Resistenza europea: quella sì, era un’altra Europa!)
Da questo punto di vista, nessun “rovescismo” può cancellare il significato della Resistenza, atto davvero di Liberazione, di creazione di un nuova Italia, evento e processo che tentò di ribaltare tutto quanto aveva rappresentato il fascismo. È davvero irredimibile il nostro debito verso quegli eroi perlopiù sconosciuti (per caso, per scelta, per necessità), i cui nomi a stento si leggono sulle sbiadite targhe delle nostre strade, davanti alle quali le amministrazioni comunali o le sezioni dell’ANPI mettono un fiore pietoso ad ogni ricorrenza del 25 Aprile. Ma anche allora nessuno, tranne qualche vecchio (sempre meno numerosi, anche per le implacabili leggi della biologia), alza la testa, a gettare una distratta occhiata, rapida, specie quando quei fiori sono freschi: la prima cosa che ci colpisce è la varietà di collocazione sociale, con una netta prevalenza dei ceti popolari: operaio, tipografo, tramviere, impiegato, studente, insegnante, ferroviere, artigiano, manovale, casalinga, pettinatrice, sarta… Il secondo elemento che balza all’occhio è l’età: ad essere «barbaramente trucidati» – come spesso si esprime il canonico stile marmoreo – sono fanciulli (dai 13-14 anni in su) o poco più che tali; gente semplice, umile, ma determinata e forte.
Certo, non possiamo dimenticare, la frase di Cesare Pavese: “ogni guerra è una guerra civile” e che i morti, tutti i morti, sono ugualmente degni di pietà; tuttavia va ribadito che è stata la guerra partigiana a dare forma, voce e respiro ad un Paese al quale vent’anni di dittatura avevano tolto il respiro, con quella catastrofe finale di una guerra mostruosa, le cui conseguenze ancora l’Europa intera sta pagando, a carissimo prezzo. Dobbiamo ribadirlo, in questa Italia attratta dalla seduzione della smemorizzazione collettiva oppure di una memoria ottusamente parificata e pacificata, e, soprattutto, avviata su una china pericolosa, che giorno dopo giorno fa intravedere scenari vieppiù preoccupanti. Specialmente oggi, quando, di nuovo, con protervia, dalla parte di un insieme di forze che sembra non lasciare scampo a chi la pensi diversamente, si sta portando il più massiccio e sistematico attacco mai tentato alla Costituzione, e, in realtà, allo Stato sociale, che è il vero obiettivo, anche se rimane sullo sfondo. In quanto questo è il cuore del processo della “postdemocrazia”: il tentativo di cancellare le conquiste dello Stato sociale. Ossia quell’insieme di tutele, di garanzie, di diritti che un secolo e mezzo di lotte avevano assicurato ai ceti subalterni, ai soggetti deboli, alle classi deprivilegiate della società. Ora, in nome della modernità, con l’ulteriore preziosa scusante (un’aggravante) della “crisi”, in un battibaleno si vuole smantellare tutto ciò che si era ottenuto, lentamente, faticosamente, e quasi sempre dolorosamente. Le pretese leggi ferree dell’economia, o gli asseriti (come indefettibili) dettami di Bruxelles (“ce lo chiede l’Europa”), sono diventate una ideologia di straordinaria efficacia per sconfiggere, in una prospettiva di lungo periodo, le riottose masse subalterne.
Si tratta in realtà di un processo cominciato sulla scena delle società liberali, capitalisticamente fondate, fin dagli anni ‘70 del sec. XX; che ha trovato un punto fondamentale nell’era di Thatcher e Reagan, poi ripresa e rilanciata negli anni ’90, dopo il “crollo del Muro” di Berlino. Un processo sovranazionale che prosegue, incessante, e che sta svuotando le democrazie, ma che in Italia assume caratteri peculiari, perché si sa, siamo specialisti della commedia, non della tragedia. Persino il fascismo, la maggiore catastrofe nazionale, ebbe tratti da operetta, da farsa, comici. Da Berlusconi a Renzi, il catalogo è presto fatto; e farsa e tragedia si mescolano nei due personaggi e nel loro corteo, dove i nani e le ballerine, sempre presenti, vanno per mano con la nuova, pericolosissima categoria di devastatori, “i tecnici”. Privatizzare, cancellare il pubblico, sostituendolo col privato, in una insopportabile retorica della governabilità (propaggine del decisionismo craxian), dell’efficienza e dello Stato minimo (lo “Stato leggero”, Renzi dixit) della velocità (con il postfuturista fiorentino).
Ma il prerequisito per questo disegno, è lo smantellamento della Costituzione, cominciando dai dettagli, per finire ai princìpi. Del resto la manomissione era cominciata già alcuni anni fa, nel finale di partita del II Governo Prodi, e poi è proseguita sotto Monti, con l’immissione del pareggio di bilancio nel dettato costituzionale. Un’aberrazione giuridica, una mostruosità politica e sociale. E ora, dopo qualche altro “ritocco”, si arricchisce di una legge elettorale peggiore del vituperato “Porcellum”, e della bella trovata del Senato non elettivo. Agghiacciante.
Con lo scorrere dei giorni, l’attacco è diventato furibondo. Velocità. Velocità. Velocità… E non si può andare tanto per il sottile. Guai a chi mette ostacoli. Guai a chi si attarda a discutere su un documento vecchio, la Costituzione, che è manifestamente (ci si ripete da mane a sera) da cambiare, anche se per ora si farà finta di conservarne una parte. Basta discutere, dunque. Il capo ha deciso, perché ha già discusso, e ha già concertato.
E con chi è stato concertato l’attacco alla Carta? Con l’avversario! Il quale, non più alla guida del governo, anzi, da condannato escluso dalle cariche pubbliche, non candidabile in tornate elettorali, contratta niente meno che la riforma della Costituzione. E a chi si affida per la messa a punto del “programma di riforme” istituzionali, il giovane ex democristiano, finito, a furor del suo popolo, alla testa del Partito democratico? La sua fonte di sapere giuridico è una giovane signora, tale Boschi, figura eminente del “cerchio magico” di Matteo Renzi (“Huffington Post” dixit). La signora Boschi, a dispetto dell’età (classe 1981) ha avuto lo scranno di “Ministro per le riforme” grazie al possesso di uno straordinario atout: una laurea, addirittura in Giurisprudenza, ma con un merito politico indubitabile: ha coordinato (con altre due signore) la campagna elettorale del suo mentore fiorentino.
Scriveva pochi giorni fa, sul Manifesto Massimo Villone, uno tra i migliori (e indipendenti) esperti di Diritto costituzionale, che occorrerebbe istituire un albo dei costituzionalisti per discettare di “riforme” del dettato costituzionale. Era una provocazione, ma davanti all’ignoranza abissale di ministri, davanti al piegarsi dei commentatori agli interessi degli inserzionisti (i veri padroni dei media), davanti alla subordinazione passiva dei “tecnici”, dei “competenti”, davanti agli ordini di scuderia, provenienti dalla coalizione di potere, che stabilisce altresì la corrente di pensiero alla quale tutti devono collocarsi, pena l’isolamento e addirittura il silenzio, ebbene quella provocazione appare sacrosanta.
Come ho già scritto e detto altre volte, se tutto questo è “riforma”, noi dobbiamo avere il coraggio di dichiararci per la conservazione. E dunque, ritorniamo a quel galantuomo di Francesco Saverio Borrelli: “Resistere, resistere, resistere, come sulla linea del Piave”. Eppure chiediamoci: basta, oggi, resistere? O non si deve contrattaccare? Ognuno con le sue armi. Per ora siamo ancora alle armi della critica. Per ora rimane ancora un presidio, che è la Costituzione (prima che la offendano irrimediabilmente), che è l’indipendenza della Magistratura, che è la possibilità di comunicare, di fare (contro)informazione, di insegnare in modo ancora libero, almeno relativamente.
Ma, chissà, se un giorno, davanti all’arroganza che diviene prepotenza; davanti all’ignoranza al potere che pretende di guidare la cultura e l’istruzione; davanti all’ingiustizia trasformata in legge; davanti a un sistema fiscale iniquo e inefficiente; davanti alla mostruosa evidenza della sperequazione sociale; davanti alle sedicenti “Grandi Opere” distruggitrici, quanto inutili (tranne che alla Grande Speculazione); davanti alla guerra chiamata pace; davanti ai potentati sovranazionali che si impadroniscono delle risorse materiali, e che privatizzano i” beni comuni”, mentre tentano di mettere il loro logo sulla nostra intelligenza, penetrando anche nei santuari del pensiero critico, come le nostre università, costringendo alla chiusura, con il pretesto della crisi finanziaria, editori e testate giornalistiche indipendenti, sostituendo librerie con enormi bookshop anonimi (di libri o di scarpe fa lo stesso), tagliando i fondi a biblioteche ed archivi, a musei e agli istituti di cultura; davanti alla progressiva, inarrestabile devastazione dell’ambiente, del paesaggio, e alla mercificazione del patrimonio artistico; davanti a una democrazia che rinuncia pezzo dopo pezzo a se stessa, trasformandosi in dittatura; allora, forse, non saremo costretti a prendere esempio, ancora, dai nostri partigiani?
(25 aprile 2014)
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