" Ragazzi non bastano i cortei, non basta la vostra meravigliosa
passione per battere le guerre, l’ingiustizia , il bisogno . Serve la
politica per vincere . La politica che incida nel potere. Come facciamo
per far diventare la vostra speranza “potere politico” ? Questo è il
problema che avete davanti. Un corteo bello e ardente non è ancora
politico. Quali sono le vostre armi ? Non le vedete ? Ci sono..! Sono in
quel libretto che i vostri padri chiamarono Costituzione, dopo aver
conquistato il diritto a scriverlo con la Resistenza . La forza del
pacifismo è la legalità, che è in contrasto con l’illegalità di chi fa
la guerra, pratica ingiustizia, affama nel bisogno . L’illegalità rimane
nei governi e negli stati . La vostra pacifica passione deve portare i
suoi argomenti e la sua forza non solo nelle piazze , ma negli stati e
nei luoghi del potere. E’ un obiettivo ambiziosissimo che dovete darvi :
costruire un potere di pace . Nessuno c’è finora riuscito: il potere è
sempre armato, è sempre stato in guerra. Noi abbiamo perso, nel volerlo
costruire , imparate da noi , dalle nostre sconfitte. Voi potete farcela
. Auguri per il vostro lungo viaggio . Pietro Ingrao
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giovedì 24 ottobre 2013
Riforma costituzionale, voce ai cittadini
la Repubblica 23 ottobre 2013 - Stefano Rodotà
So bene quanto sia difficile, oggi in Italia, una discussione ispirata a criteri di ragione e rispetto. È quel che sta accadendo per il tema della riforma della Costituzione. Ma questo non deve indurre a ritrarsi da una discussione che trova talora toni sgradevoli. Impone, invece, di fare ogni sforzo perché una questione davvero fondamentale possa essere affrontata in modo rispettoso dei dati di realtà e delle diverse posizioni in campo.
Quel che si sta discutendo è l’assetto futuro della Repubblica, l’equilibrio tra i poteri, lo spazio stesso della politica, dunque il rapporto tra istituzioni e società delineato dalla Costituzione, il patto al quale sono consegnate le ragioni del nostro stare insieme. Tuttavia, prima di affrontare questioni così impegnative, è necessario ristabilire alcune minime verità. Nell’affannosa ricerca di argomenti a difesa della strada verso la revisione costituzionale scelta da governo e maggioranza, infatti, si sta operando un vero e proprio stravolgimento della posizione di alcuni critici di questa scelta. Premono le ragioni della propaganda e così si alzano i toni, con una mossa rivelatrice dell’intima debolezza delle proprie ragioni. Spiace che in questa operazione si sia fatto coinvolgere lo stesso presidente del Consiglio, che non perde occasione per additare i critici come quelli che vogliono rendere impossibile la riduzione del numero dei parlamentari, l’uscita dal bicameralismo paritario, la riscrittura dello sciagurato titolo V della Costituzione sui rapporti tra Stato e Regioni.
Ripeto: questa è una assoluta distorsione della realtà. Fin dall’inizio di questa vicenda, di fronte al “cronoprogramma” del governo era stato indicato un cammino diverso, che sottolineava proprio la possibilità di una rapida approvazione di riforme per le quali esisteva già un vasto consenso sociale, appunto quelle ricordate prima. Se governo e Parlamento avessero subito seguito questa indicazione, è ragionevole ritenere che saremmo già a buon punto, vicini ad una dignitosa riscrittura di norme della Costituzione concordemente ritenute bisognose di modifiche. Come si sa, è stata scelta una strada diversa, tortuosa e pericolosa, con variegate investiture di gruppi di “saggi” e con l’abbandono della procedura di revisione indicata dall’articolo 138 della Costituzione. I tempi si sono allungati e i contrasti si sono fatti più acuti.
Questo non è un dettaglio, come vorrebbero farlo apparire quelli che, con sufficienza, invitano a guardare al merito delle proposte e a non impigliarsi in questioni meramente procedurali. Quando si tratta di garanzie, la regola sulla procedura è tutto, dà la certezza che un obiettivo così impegnativo, come la revisione costituzionale, non venga piegato a esigenze strumentali, a logiche congiunturali. È proprio quello che sta avvenendo, sì che non è arbitrario ritenere che la strada scelta nasconda un altro proposito – quello di agganciare a riforme condivise anche una forzatura, riguardante il cambiamento della forma di governo.
È caricaturale, e improprio, descrivere la discussione attuale come un conflitto tra conservatori e innovatori. Si stanno confrontando, e non da oggi, due linee di riforma. Di fronte a quella scelta da governo e maggioranza non v’è un arroccamento cieco, un pregiudiziale no a qualsiasi cambiamento. Vi è una proposta diversa, che può essere così riassunta: rispetto della procedura dell’articolo 138, avvio immediato delle tre specifiche riforme già citate, mantenimento della forma di governo parlamentare rivista negli aspetti che appaiono più deboli.
Torniamo, allora, alle questioni più generali. Da alcuni anni si è istituita una relazione perversa tra
emergenza economica, impotenza politica e cambiamenti della Costituzione. Con una accelerazione violenta, e senza una vera discussione pubblica, nel 2012 è stata approvata una modifica dell’articolo 81 della Costituzione, prevedendo il pareggio di bilancio. Allora si chiese, invano, ai parlamentari di non approvare quella riforma con la maggioranza dei due terzi, per consentire di promuovere eventualmente un referendum su un cambiamento tanto profondo. La ragione era chiara. Si parla molto di coinvolgimento dei cittadini e si dimentica che quella maggioranza era stata prevista quando la legge elettorale era proporzionale, dando così garanzie in Parlamento che sono state fortemente ridotte dal passaggio al maggioritario. Oggi la stessa richiesta viene rivolta ai senatori che si accingono a votare in seconda lettura la modifica dell’articolo 138. Vi sarà tra loro un gruppo dotato di sensibilità istituzionale che accoglierà questo invito, affidando anche ai cittadini il giudizio sulla sospensione di una procedura di garanzia che altri, in futuro, potrebbero utilizzare invocando qualche diversa urgenza o emergenza? Non basta, infatti, aver previsto un referendum alla fine dell’iter della riforma finale, se rimane un dubbio sulla correttezza del modo in cui quel cammino è cominciato. La discussione sul merito delle proposte assume significato diverso se queste non alterano l’impianto costituzionale e sono già sorrette da consenso sociale, come quelle più volte citate, o se invece implicano un mutamento della forma di governo. Per quest’ultima, nella relazione del Comitato dei “saggi” sono state fatte due operazioni. In via generale, sono state legittimate tre ipotesi tra loro ben diverse. E poi si è indicata tra queste una sorta di mediazione, definita come “forma di governo parlamentare del Primo Ministro”, che in realtà introduce un presidenzialismo mascherato, costituzionalizzando l’indicazione sulla scheda del candidato premier e ridimensionando così il potere di nomina da parte del presidente della Repubblica e quello del Parlamento di dare la fiducia. Ha detto bene Gaetano Azzariti sottolineando che così si realizza «l’indebolimento della forma di governo parlamentare e il definitivo approdo in Costituzione delle pulsioni presidenziali». Una politica debole cerca così una scorciatoia efficientista attraverso un accentramento/ personalizzazione dei poteri e sembra rassegnarsi ad una crisi dei partiti che, incapaci di presentarsi come effettivi rappresentanti dei cittadini, non sono più in grado di cogliere la pienezza del ruolo dell’istituzione in cui sono presenti, il Parlamento, alterando così gli equilibri costituzionali.
Ma l’assunzione della logica dell’emergenza e della pura efficienza svuota lo spazio costituzionale di tutto ciò che si presenta come “incompatibile” con essa. I diritti fondamentali sono respinti sullo sfondo e si perde il loro più profondo significato, in cui si esprime non solo il riconoscimento della persona nella sua integralità, ma un limite alla discrezionalità politica che, soprattutto in tempi di risorse scarse, deve costruire le sue priorità partendo proprio dalla garanzia di quei diritti. Sbagliano quelli che, con una mossa infastidita, dichiarano l’irrilevanza della discussione sulle riforme di fronte ai bisogni reali delle persone. Questi vengono sacrificati proprio perché la politica ha perduto la sua dimensione costituzionale, e fa venir meno garanzie in nome di un’efficienza tutta da dimostrare, come accade per il lavoro. Se non si coglie questo nesso, rischiano d’essere vane anche le iniziative su questioni specifiche, e i lineamenti della Repubblica verranno stravolti assai più di quanto possa accadere con un mutamento della forma di governo.
Quel che si sta discutendo è l’assetto futuro della Repubblica, l’equilibrio tra i poteri, lo spazio stesso della politica, dunque il rapporto tra istituzioni e società delineato dalla Costituzione, il patto al quale sono consegnate le ragioni del nostro stare insieme. Tuttavia, prima di affrontare questioni così impegnative, è necessario ristabilire alcune minime verità. Nell’affannosa ricerca di argomenti a difesa della strada verso la revisione costituzionale scelta da governo e maggioranza, infatti, si sta operando un vero e proprio stravolgimento della posizione di alcuni critici di questa scelta. Premono le ragioni della propaganda e così si alzano i toni, con una mossa rivelatrice dell’intima debolezza delle proprie ragioni. Spiace che in questa operazione si sia fatto coinvolgere lo stesso presidente del Consiglio, che non perde occasione per additare i critici come quelli che vogliono rendere impossibile la riduzione del numero dei parlamentari, l’uscita dal bicameralismo paritario, la riscrittura dello sciagurato titolo V della Costituzione sui rapporti tra Stato e Regioni.
Ripeto: questa è una assoluta distorsione della realtà. Fin dall’inizio di questa vicenda, di fronte al “cronoprogramma” del governo era stato indicato un cammino diverso, che sottolineava proprio la possibilità di una rapida approvazione di riforme per le quali esisteva già un vasto consenso sociale, appunto quelle ricordate prima. Se governo e Parlamento avessero subito seguito questa indicazione, è ragionevole ritenere che saremmo già a buon punto, vicini ad una dignitosa riscrittura di norme della Costituzione concordemente ritenute bisognose di modifiche. Come si sa, è stata scelta una strada diversa, tortuosa e pericolosa, con variegate investiture di gruppi di “saggi” e con l’abbandono della procedura di revisione indicata dall’articolo 138 della Costituzione. I tempi si sono allungati e i contrasti si sono fatti più acuti.
Questo non è un dettaglio, come vorrebbero farlo apparire quelli che, con sufficienza, invitano a guardare al merito delle proposte e a non impigliarsi in questioni meramente procedurali. Quando si tratta di garanzie, la regola sulla procedura è tutto, dà la certezza che un obiettivo così impegnativo, come la revisione costituzionale, non venga piegato a esigenze strumentali, a logiche congiunturali. È proprio quello che sta avvenendo, sì che non è arbitrario ritenere che la strada scelta nasconda un altro proposito – quello di agganciare a riforme condivise anche una forzatura, riguardante il cambiamento della forma di governo.
È caricaturale, e improprio, descrivere la discussione attuale come un conflitto tra conservatori e innovatori. Si stanno confrontando, e non da oggi, due linee di riforma. Di fronte a quella scelta da governo e maggioranza non v’è un arroccamento cieco, un pregiudiziale no a qualsiasi cambiamento. Vi è una proposta diversa, che può essere così riassunta: rispetto della procedura dell’articolo 138, avvio immediato delle tre specifiche riforme già citate, mantenimento della forma di governo parlamentare rivista negli aspetti che appaiono più deboli.
Torniamo, allora, alle questioni più generali. Da alcuni anni si è istituita una relazione perversa tra
emergenza economica, impotenza politica e cambiamenti della Costituzione. Con una accelerazione violenta, e senza una vera discussione pubblica, nel 2012 è stata approvata una modifica dell’articolo 81 della Costituzione, prevedendo il pareggio di bilancio. Allora si chiese, invano, ai parlamentari di non approvare quella riforma con la maggioranza dei due terzi, per consentire di promuovere eventualmente un referendum su un cambiamento tanto profondo. La ragione era chiara. Si parla molto di coinvolgimento dei cittadini e si dimentica che quella maggioranza era stata prevista quando la legge elettorale era proporzionale, dando così garanzie in Parlamento che sono state fortemente ridotte dal passaggio al maggioritario. Oggi la stessa richiesta viene rivolta ai senatori che si accingono a votare in seconda lettura la modifica dell’articolo 138. Vi sarà tra loro un gruppo dotato di sensibilità istituzionale che accoglierà questo invito, affidando anche ai cittadini il giudizio sulla sospensione di una procedura di garanzia che altri, in futuro, potrebbero utilizzare invocando qualche diversa urgenza o emergenza? Non basta, infatti, aver previsto un referendum alla fine dell’iter della riforma finale, se rimane un dubbio sulla correttezza del modo in cui quel cammino è cominciato. La discussione sul merito delle proposte assume significato diverso se queste non alterano l’impianto costituzionale e sono già sorrette da consenso sociale, come quelle più volte citate, o se invece implicano un mutamento della forma di governo. Per quest’ultima, nella relazione del Comitato dei “saggi” sono state fatte due operazioni. In via generale, sono state legittimate tre ipotesi tra loro ben diverse. E poi si è indicata tra queste una sorta di mediazione, definita come “forma di governo parlamentare del Primo Ministro”, che in realtà introduce un presidenzialismo mascherato, costituzionalizzando l’indicazione sulla scheda del candidato premier e ridimensionando così il potere di nomina da parte del presidente della Repubblica e quello del Parlamento di dare la fiducia. Ha detto bene Gaetano Azzariti sottolineando che così si realizza «l’indebolimento della forma di governo parlamentare e il definitivo approdo in Costituzione delle pulsioni presidenziali». Una politica debole cerca così una scorciatoia efficientista attraverso un accentramento/ personalizzazione dei poteri e sembra rassegnarsi ad una crisi dei partiti che, incapaci di presentarsi come effettivi rappresentanti dei cittadini, non sono più in grado di cogliere la pienezza del ruolo dell’istituzione in cui sono presenti, il Parlamento, alterando così gli equilibri costituzionali.
Ma l’assunzione della logica dell’emergenza e della pura efficienza svuota lo spazio costituzionale di tutto ciò che si presenta come “incompatibile” con essa. I diritti fondamentali sono respinti sullo sfondo e si perde il loro più profondo significato, in cui si esprime non solo il riconoscimento della persona nella sua integralità, ma un limite alla discrezionalità politica che, soprattutto in tempi di risorse scarse, deve costruire le sue priorità partendo proprio dalla garanzia di quei diritti. Sbagliano quelli che, con una mossa infastidita, dichiarano l’irrilevanza della discussione sulle riforme di fronte ai bisogni reali delle persone. Questi vengono sacrificati proprio perché la politica ha perduto la sua dimensione costituzionale, e fa venir meno garanzie in nome di un’efficienza tutta da dimostrare, come accade per il lavoro. Se non si coglie questo nesso, rischiano d’essere vane anche le iniziative su questioni specifiche, e i lineamenti della Repubblica verranno stravolti assai più di quanto possa accadere con un mutamento della forma di governo.
Presentazione del libro Uscire dal Passato per entrare nel Futuro!
giovedì 24 ottobre 2013
Comunicato Stampa
La giornalista Teresa Campagna intervisterà l'autrice |
Via Notarbartolo n°9/F, Palermo
|
https://www.facebook.com/events/1452325761659740/?ref=22
martedì 22 ottobre 2013
Recensione al LIBRO DI NELLA TOSCANO: USCIRE DAL PASSATO PER ENTRARE NEL FUTURO a cura di Sergio Casagrande!
22 ottobre 2013 alle ore 18.15
Ho
appena terminato la lettura del libro di Nella Toscano. Amo leggere
saggi e romanzi, ma collocare il testo di questa bravissima scrittrice
tra questi, mi è diventato difficile. Perché se del primo ha la
caratteristica della denuncia dei compromessi e dei comportamenti
mafiosi che hanno ruotato e si sono avviluppati attorno al suo percorso
lavorativo e politico, che vanno dagli anni settanta ai nostri giorni (
un contributo, prima ancora di un esempio caparbio, e un auspicio che
l'etica e una vera giustizia lascino il passo alla corruzione
dilagante), del secondo ha gli ideali, la passione e la tensione morale,
il fascino della lotta, delle sconfitte, delle battaglie vinte, delle
inevitabili delusioni di chi da fanciulla ha ricevuto in dono
insegnamenti ed esempi di probità dai genitori. La citazione, scolpita
sulla tomba di Pippo Fava: “ Se non si è disposti a lottare a che serve
essere vivi? ” sembra essere stato il suo credo, e nonostante gli
infamanti tradimenti e i comportamenti di amici e compagni da sepolcri
imbiancati, Nella non sarà mai doma, e seppur con molti dubbi e
perplessità non si tirerà mai indietro. Nella si sofferma sulla nostra
bella Costituzione, che consorterie politico- affaristiche, nonostante
gli italiani avessero già bocciato le manomissioni dell'assetto
istituzionale con il referendum del 2006, in nome di una presunta
governabilità, cercano tutt'ora di stravolgere facendoci credere che il
presidenzialismo sia la panacea di tutti i mali. Non ci vuole molto per
capire che questi sono nuovi espedienti per svincolarsi dal patto
costituzionale trasformando la nostra povera democrazia in un regno
oligarchico per mantenere intatti i privilegi del Gattopardo. E lo
spettro del grande fratello di orwelliana memoria, da evitare con tutte
le forze. La scrittrice non attacca nessuno in particolare, lasciando
giustamente intendere che è il sistema, le connivenze, le
raccomandazioni, l'ipocrisia che hanno ormai minato le fondamenta del
nostro Paese. Ma ancora una volta l'ottimismo degli idealisti la invade,
e cita alla fine del suo libro Danilo Dolci: “ Sapere inventare con gli
altri, in modo organico, il proprio futuro, è una delle maggiori
riserve di energia rivoluzionaria di cui il mondo possa disporre, uno
dei modi essenziali per liberare nuove possibilità...” E conclude: NE
SAREMO CAPACI? UN LIBRO SCORREVOLE E SCRITTO IN MODO SEMPLICE CHE
CONSIGLIO AGLI AMICI. PERCORRERANNO INSIEME A NELLA TOSCANO LE BATTAGLIE
PER L'EMANCIPAZIONE DELLE DONNE E GLI ANNI BUI DELLA SICILIA E DEL
NOSTRO PAESE DAGLI ANNI SETTANTA AD OGGI. PER ACQUISTO inviare mail a:
edizionigemina@alice.it oppure con IBS
di: Sergio Casagrande
di: Sergio Casagrande
lunedì 14 ottobre 2013
“Uscire dal passato per entrare nel futuro” di Nella Toscano a cura di Marzia Carocci
“Uscire dal passato per entrare nel futuro” di Nella Toscano a cura di Marzia Carocci
ott 11, 2013
Il libero arbitrio o facoltà di scelta, spesso sono utopie alle quali volenti o nolenti, per cause maggiori, volute spesso da sistemi non democratici, ci obbligano a soprassedere, lasciandoci in balia di rabbie e riflessioni su quanto il potere di alcuni, delimiti le nostre decisioni.
Alcune nostre scelte, portate avanti con determinazione, con impegno, fatiche e aspettative spesso, in alcune situazioni, vengono in qualche modo frenate e quindi respinte da un sistema politico, di mafia, di chiusura e prevaricazione al quale diventa impossibile attuarle.
“Uscire dal passato per entrare nel futuro“, il libro di Nella Toscano è improntato sulla storia di Allen, una ragazza che per studi Universitari, s’instaura a Palermo in un periodo storico/politico/culturale intorno agli anni settanta dove vige un sistema che si ritorce presto contro di lei; attiva e combattiva studentessa di architettura non appartenente a “nicchie” mafiose, borghesi o massoniche, viene immediatamente esclusa dalla cerchia e quindi decurtata di una carriera che non le sarà permessa.
Forte e determinata, per niente piegata, decide di entrare in politica per avere la possibilità di cambiare alcune situazioni soprattutto legate ai giovani e al loro mondo, al lavoro e al rispetto della Costituzione.
Allen, in seguito, negli anni novanta, deciderà di militare nel DS a fianco di Walter Veltroni appena eletto; verrà nominata come dirigente nel gruppo provinciale, si darà da fare in battaglie e lotte politiche nelle quali crede fermamente, fino a quando si accorgerà che anche lì, il suo spazio sarà delimitato e quindi impossibilitata di esprimesi come avrebbe voluto.
Cambierà di nuovo, decisa a difendere quei diritti fondamentali ai quali crede, tornerà in prima linea accanto a il Programma di Romano Prodi ma resterà presto di nuovo delusa e obbligata a catene che non le danno libertà di espressione e innovazione di idee per attuarequei cambiamenti che sente importanti e fondamentali.
La carriera politica si ritorcerà contro la sua professione di consulente giudiziario e si renderà presto conto, quando chiederà i propri diritti a chi dovrebbe aiutarla a difenderli, che niente è legalità, giustizia, onestà.
Un libro che ci apre in quella triste realtà dove l’impegno e la volontà spesso sono delimitati da decisioni di un potere che soffoca ogni possibilità di rinnovamento, vuoi per interessi propri, vuoi per favoritismi o per ordini superiori che muovono fili a chi deve lasciare il tutto così com’è!
Allen, forte, ricca di ideali, donna determinata e proiettata verso quei diritti fondamentali dell’essere umano, piegata, allontanata, esclusa dalla sopraffazione di un pensiero e di un sistema che sfugge dalla democrazia e alla voglia di vivere in un posto migliore.
Uno stralcio sul periodo storico/politico Siciliano/Nazionale che va dagli anni settanta al primo decennio del duemila.
Nella Toscano, con questo suo libro, batte un pugno sul tavolo, un pugno di monito, di esortazione, di pulizia etico/sociale e politica di cui tutti vorremmo sentirne il colpo! Un libro che ha voce, un megafono aperto a chi ha dimenticato cosa sia la libertà di pensiero e di azione!
Written by Marzia Carocci
domenica 13 ottobre 2013
venerdì 11 ottobre 2013
La sinistra che vogliamo: Una pagina Bianca da scrivere!
Difendere la Costituzione è divenuta una priorità delle
priorità in questo Paese e pretenderne l’applicazione una necessità non
più rinviabile.
Non so quanti ne sono consapevoli e quanti hanno ancora
voglia di combattere questa battaglia vitale per la democrazia, per i diritti
di tutti e soprattutto dei più deboli.
Domani si svolgerà a Roma la manifestazione indetta da
Rodotà e Ladini a cui ha aderito
la parte migliore del Paese, che vive questo momento con dolore e che non vuole
rassegnarsi a questa politica fatta di false promesse ed intrisa di una
ipocrisia insopportabile .
E’ chiaro a tutti, o meglio dovrebbe essere chiaro a
tutti che non si può continuare
così! Non è possibile continuare a scivolare giù senza fare niente per
arrestare questa frana che rischia di travolgerci tutti.
Quello che abbiamo visto verificarsi in questi giorni ci
deve convincere della necessità di voltare pagina.
Non è possibile in un Paese civile assistere inerti al
naufragio di centinaia e centinaia di essere umani, uomini, donne e bambini, in
fuga dai loro Paesi per la fame e le guerre, con la speranza di sfuggire ad un destino crudele.
Non è possibile continuare a sperare in un governo di larghe intese con
ministri che non hanno dimostrato di essere in grado di risolvere minimamente i
nostri problemi, che si aggravano
sempre di più, sia in campo economico, che in quello sociale.
Non è possibile continuare a vederci strappare i nostri
diritti senza reagire.
Non è possibile assistere senza cercare di fermare la
vendita dei beni dello stato, allo svuotamento di quello che era uno dei Paesi più industrializzati del mondo.
Non è possibile assistere al disastro economico senza
interrogarci su questa Europa, su questa finanza, su questo capitalismo e,
soprattutto, sulla nostra sovranità monetaria perduta.
Non è possibile vedere accapigliarsi ogni giorno questi
politicanti intorno a problemi che niente hanno a che fare con la soluzione dei
problemi veri delle persone che non ce la fanno più a vivere, con le imprese
che falliscono, i negozi che chiudono, la disoccupazione che aumenta.
Ci siamo ridotti a dover dibattere ogni santo giorno, sia a
livello nazionale, che regionale – vedi la Sicilia dove sembra tutto ridotto ad
una farsa- su questioni di cui ci sfugge il senso e che comunque riguardano
solo l’esercizio puro del potere a prescindere ed alle spartizioni di torte
ancora sul piatto che nulla hanno
a che vedere con il bene comune.
Non è concepibile che chi non ci sta continua ad assistere a questo
scempio rimanendo alla finestra a guardare.
Qui, bisogna capire, che o si rifà la sinistra per cercare
di salvare il Paese o si muore!
Purtroppo
ancora questa consapevolezza stenta a manifestarsi, bisogna prenderne
atto, anche se si stenta a capire il perché di tutta questa inerzia.
Bisogna assolutamente prendere altresì atto che è finito il tempo dei
partitini, che sono giunti tutti al capolinea con percentuali da prefisso
telefonico: inutile cercare di superare tutto con la vecchia e logora formula
di apertura agli altri.
Bisogna avere chiaro
che si
potranno anche aprire, ma gli altri non si uniranno a loro perché, come ha giustamente fatto notare un compagno
di sel, prevarrebbe sempre la diffidenza.
Bisogna invece cominciare a scrivere su una pagina
bianca la sinistra che
vogliamo, che dovrà
necessariamente essere altro rispetto a quello che abbiamo visto in questi
ultimi anni.
Quella rappresentata dai
partitini non lo è e non potrà mai svolgere la sua missione, perché non viene riconosciuta da
tutti e perché non ha mai saputo dimostrare di sapere assolvere il suo ruolo.
Bisogna prendere atto che non è più tempo di riciclarsi e tanto meno di tentare operazioni di trasformismo.
E’ invece necessario ed urgente cambiare: sono convinta che si può “alla condizione che si riesca a capire questa fase della storia, difficile, dura, ma favorevole, e che si facciano le scelte giuste. Perché è finito il tempo nel quale la Sinistra si può permettere di baloccarsi, di vivacchiare, di traccheggiare, di pazzeggiare”.
E’ invece necessario ed urgente cambiare: sono convinta che si può “alla condizione che si riesca a capire questa fase della storia, difficile, dura, ma favorevole, e che si facciano le scelte giuste. Perché è finito il tempo nel quale la Sinistra si può permettere di baloccarsi, di vivacchiare, di traccheggiare, di pazzeggiare”.
Vogliamo ripartire dal 12 ottobre?
Palermo 11.10.2013
Nella Toscano
mercoledì 9 ottobre 2013
Rodotà: «Sabato in piazza chi vuole cambiare la politica»
L'Unità - 9 ottobre 2013 -
Vladimiro Frulletti
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Non
un nuovo partito, né un’adunanza di nostalgici conservatori di
sinistra. Per Stefano Rodotà sabato a Roma i protagonisti delle
«battaglie vinte» usando la Costituzione cercheranno di costruire una
«rete» per cambiare la politica italiana. Cominciando dal respingere le
derive presidenzialiste che per Rodotà si nascondono nel pacchetto di
riforme costituzionali promosso dal governo.
Professore cosa non va nella strada imboccata dal governo?
«L’articolo 138 è la regola delle regole e quindi non dovrebbe essere disponibile. Non dovrebbe essere modificata».
Ma si tratta di una procedura molto complessa che rende lunga e faticosa qualsiasi modifica costituzionale.
«Non è vero. Non è una procedura particolarmente pesante soprattutto se confrontata con quello che succede in altri Paesi. Negli Stati Uniti per approvare una modifica alla Costituzione federale devono essere d’accordo tutti gli Stati. In Belgio quando si modifica la Costituzione si sciolgono le Camere e si va a votare in modo che i cittadini possano dare anche un giudizio politico su chi l’ha modificata. L’articolo 138 è una garanzia per tutti. Invece prevedono una deroga, ma così si crea un precedente. Ci sono dei punti fermi che non vanno toccati perché appartengono alle garanzie democratiche».
Nel merito però tutti o quasi concordano sul fatto che certi aspetti vadano riformati: dal bicameralismo perfetto alla riduzione dei parlamentari. È sbagliato?
«No. Dalla riduzione dei parlamentari alla fine del bicameralismo perfetto alla modifica del Titolo V che ha creato un contenzioso sempre più ingarbugliato fra Stato e Regioni, c’è largo consenso».
Allora qual è l’obiezione?
«Che proprio perché così largamente condivise queste riforme potevano essere fatte tranquillamente con la procedura normale. Se fossimo partiti quando il governo ha scelto la strada della deroga, a quest’ora saremo già un bel pezzo avanti nella direzione giusta. La verità però è un’altra».
Quale?
«Che facendo una sorta di pacchetto da prendere tutto intero si vuole inserire una modifica della forma di governo accentrando i poteri».
E voi siete contrari.
«Sono contrari i cittadini. Il governo Berlusconi nel 2005 approvò una riforma costituzionale in questa direzione. Poi però ben 16 milioni di cittadini la bocciarono col referendum. Oggi si fanno tante polemiche sui referendum disattesi, da quello sul finanziamento pubblico ai partiti a quello sulla responsabilità civile dei giudici. Quel referendum che è molto più impegnativo invece non viene considerato».
Il nodo è la forma di governo?
«Su quel passaggio che punta ad accentrare il potere nelle mani del presidente del Consiglio con una larvata curvatura presidenzialista non c’è consenso. Ma si cerca di farlo passare legandolo alle altre riforme su cui invece il consenso c’è».
Ma c’era un’altra strada?
«Certo. Sarebbe stato più opportuno approvare singolarmente le riforme condivise largamente. Invece così al referendum sarà portato un pacchetto, un prendere o lasciare. E io che sono d’accordo sulla riduzione dei parlamentari, sulla fine del bicameralismo perfetto, sulla riforma del Titolo V, ma non sull’accentramento dei poteri al premier, sarò obbligato a votare o contro, quindi dicendo no a quello su cui concordo, oppure a votare a favore, dicendo sì anche a una forma di governo più o meno presidenziale».
Il professore Zagrebelsky mette in guardia da modifiche anche sulla seconda parte della Costituzione che, a suo giudizio, comprometterebbero anche la prima parte. Quella sui valori fondamentali che lo stesso premier Letta ha più volte detto che non si tocca.
«Io sono per la “buona manutenzione” di cui parla Alessandro Pizzorusso. Quindi se riduco i parlamentari non incido sulla prima parte. Ma se tocco l’autonomia della magistratura o il modo in cui si approvano le leggi tocco quei diritti fondamentali che per la Costituzione possono, appunto, essere limitati solo in forza di legge o di decisione autonoma e motivata dell’autorità giudiziaria».
La piazza di sabato non rischia di essere l’appuntamento della sinistra, sì nobile, ma che vuole conservare le cose così come sono?
«No, perché quella di sabato non è solo l’iniziativa di chi si oppone alla proposta di revisione costituzionale del governo. È qualcosa di più e di diverso».
Cosa?
«In questi anni ci sono stati soggetti sociali e collettivi che hanno utilizzato la Costituzione in maniera vincente. 27 milioni di persone coi referendum, uno strumento costituzionale, hanno detto no al nucleare, no alle leggi ad personam, sì all’acqua pubblica. E quando si è tentato di aggirare il referendum sull’acqua, i promotori si sono rivolti alla Corte Costituzionale che ha stabilito che i risultati devono essere rispettati. È stata una battaglia costituzionale vincente. La Fiom ha fatto garantire attraverso le leggi e la Costituzione il diritto alla rappresentanza nelle fabbriche. Una garanzia che vale non solo per i propri iscritti, ma per tutti i lavoratori e i sindacati. Libera di Don Ciotti, impugnando come dice lui Vangelo e Costituzione, combatte concretamente per la legalità, ad esempio sui beni confiscati alla mafia. Alla Costituzione fanno riferimento Emergency per il diritto universale alla salute, l’Arci per la promozione della cultura».
Volete fare un nuovo partito?
«Non vogliamo fare né un partito né un raggruppamento della sinistra, come dicono alcuni di Rifondazione, ma vedere se questi vari soggetti possano creare una massa critica per influire sulla politica non in opposizione né col Parlamento né coi partiti. Qui non c’è anti-politica, ma l’esatto contrario. Perché l’obiettivo è creare un forte movimento sociale e civile che dia forza a chi vuole fare battaglie sul reddito minimo, sui beni comuni, sui diritti civili. Dal 13 ottobre in avanti vogliamo provare a creare una rete civile, uno spazio politico in cui si elabora e si propone per far sì che la politica di questo Paese sia una vera politica costituzionale».
Professore cosa non va nella strada imboccata dal governo?
«L’articolo 138 è la regola delle regole e quindi non dovrebbe essere disponibile. Non dovrebbe essere modificata».
Ma si tratta di una procedura molto complessa che rende lunga e faticosa qualsiasi modifica costituzionale.
«Non è vero. Non è una procedura particolarmente pesante soprattutto se confrontata con quello che succede in altri Paesi. Negli Stati Uniti per approvare una modifica alla Costituzione federale devono essere d’accordo tutti gli Stati. In Belgio quando si modifica la Costituzione si sciolgono le Camere e si va a votare in modo che i cittadini possano dare anche un giudizio politico su chi l’ha modificata. L’articolo 138 è una garanzia per tutti. Invece prevedono una deroga, ma così si crea un precedente. Ci sono dei punti fermi che non vanno toccati perché appartengono alle garanzie democratiche».
Nel merito però tutti o quasi concordano sul fatto che certi aspetti vadano riformati: dal bicameralismo perfetto alla riduzione dei parlamentari. È sbagliato?
«No. Dalla riduzione dei parlamentari alla fine del bicameralismo perfetto alla modifica del Titolo V che ha creato un contenzioso sempre più ingarbugliato fra Stato e Regioni, c’è largo consenso».
Allora qual è l’obiezione?
«Che proprio perché così largamente condivise queste riforme potevano essere fatte tranquillamente con la procedura normale. Se fossimo partiti quando il governo ha scelto la strada della deroga, a quest’ora saremo già un bel pezzo avanti nella direzione giusta. La verità però è un’altra».
Quale?
«Che facendo una sorta di pacchetto da prendere tutto intero si vuole inserire una modifica della forma di governo accentrando i poteri».
E voi siete contrari.
«Sono contrari i cittadini. Il governo Berlusconi nel 2005 approvò una riforma costituzionale in questa direzione. Poi però ben 16 milioni di cittadini la bocciarono col referendum. Oggi si fanno tante polemiche sui referendum disattesi, da quello sul finanziamento pubblico ai partiti a quello sulla responsabilità civile dei giudici. Quel referendum che è molto più impegnativo invece non viene considerato».
Il nodo è la forma di governo?
«Su quel passaggio che punta ad accentrare il potere nelle mani del presidente del Consiglio con una larvata curvatura presidenzialista non c’è consenso. Ma si cerca di farlo passare legandolo alle altre riforme su cui invece il consenso c’è».
Ma c’era un’altra strada?
«Certo. Sarebbe stato più opportuno approvare singolarmente le riforme condivise largamente. Invece così al referendum sarà portato un pacchetto, un prendere o lasciare. E io che sono d’accordo sulla riduzione dei parlamentari, sulla fine del bicameralismo perfetto, sulla riforma del Titolo V, ma non sull’accentramento dei poteri al premier, sarò obbligato a votare o contro, quindi dicendo no a quello su cui concordo, oppure a votare a favore, dicendo sì anche a una forma di governo più o meno presidenziale».
Il professore Zagrebelsky mette in guardia da modifiche anche sulla seconda parte della Costituzione che, a suo giudizio, comprometterebbero anche la prima parte. Quella sui valori fondamentali che lo stesso premier Letta ha più volte detto che non si tocca.
«Io sono per la “buona manutenzione” di cui parla Alessandro Pizzorusso. Quindi se riduco i parlamentari non incido sulla prima parte. Ma se tocco l’autonomia della magistratura o il modo in cui si approvano le leggi tocco quei diritti fondamentali che per la Costituzione possono, appunto, essere limitati solo in forza di legge o di decisione autonoma e motivata dell’autorità giudiziaria».
La piazza di sabato non rischia di essere l’appuntamento della sinistra, sì nobile, ma che vuole conservare le cose così come sono?
«No, perché quella di sabato non è solo l’iniziativa di chi si oppone alla proposta di revisione costituzionale del governo. È qualcosa di più e di diverso».
Cosa?
«In questi anni ci sono stati soggetti sociali e collettivi che hanno utilizzato la Costituzione in maniera vincente. 27 milioni di persone coi referendum, uno strumento costituzionale, hanno detto no al nucleare, no alle leggi ad personam, sì all’acqua pubblica. E quando si è tentato di aggirare il referendum sull’acqua, i promotori si sono rivolti alla Corte Costituzionale che ha stabilito che i risultati devono essere rispettati. È stata una battaglia costituzionale vincente. La Fiom ha fatto garantire attraverso le leggi e la Costituzione il diritto alla rappresentanza nelle fabbriche. Una garanzia che vale non solo per i propri iscritti, ma per tutti i lavoratori e i sindacati. Libera di Don Ciotti, impugnando come dice lui Vangelo e Costituzione, combatte concretamente per la legalità, ad esempio sui beni confiscati alla mafia. Alla Costituzione fanno riferimento Emergency per il diritto universale alla salute, l’Arci per la promozione della cultura».
Volete fare un nuovo partito?
«Non vogliamo fare né un partito né un raggruppamento della sinistra, come dicono alcuni di Rifondazione, ma vedere se questi vari soggetti possano creare una massa critica per influire sulla politica non in opposizione né col Parlamento né coi partiti. Qui non c’è anti-politica, ma l’esatto contrario. Perché l’obiettivo è creare un forte movimento sociale e civile che dia forza a chi vuole fare battaglie sul reddito minimo, sui beni comuni, sui diritti civili. Dal 13 ottobre in avanti vogliamo provare a creare una rete civile, uno spazio politico in cui si elabora e si propone per far sì che la politica di questo Paese sia una vera politica costituzionale».
martedì 8 ottobre 2013
Cancellare subito lo scandalo della Bossi-Fini
8 ottobre 2013 -
Stefano Rodotà
LE TERRIBILI tragedie collettive sono ormai diventate grandi rappresentazioni pubbliche, che vedono tra i loro attori i rappresentanti delle istituzioni, ben allenati ormai nel recitare il ruolo di chi deve dare voce ai sentimenti di cordoglio, dire che il dramma non si ripeterà, promettere che «nulla sarà come prima». Il pellegrinaggio a Lampedusa era ovviamente doveroso, arriverà anche il presidente della Commissione europea Barroso, si è già fatta sentire la voce del primo ministro francese perché sia anche l’Unione europea a discutere la questione. Sembra così che sia stata soddisfatta la richiesta del governo italiano di considerare il tema in questa più larga dimensione, guardando alle coste del nostro paese come alla frontiera sud dell’Unione.
Attenzione, però, a non operare una sorta di rimozione, rimettendoci alle istituzioni europee e non considerando primario l’obbligo di mettere ordine in casa nostra. Lunga, e ben nota da tempo, è la lista delle questioni da affrontare, a cominciare dalla condizione dei centri di accoglienza dove troppo spesso ai migranti viene negato il rispetto della dignità, anzi della loro stessa umanità. Ma oggi possiamo ben dire che vi è una priorità assoluta, che deve essere affrontata e che può esserlo senza che si obietti, come accade per i centri di accoglienza, che mancano le risorse necessarie. Questa priorità è la cosiddetta legge Bossi-Fini.
LA BOSSI-FINI è quasi un compendio di inciviltà per le motivazioni profonde che l’hanno generata e per le regole che ne hanno costituito la traduzione concreta. Per questa legge l’emigrazione deve essere considerata come un problema di ordine pubblico, con conseguente ricorso massiccio alle norme penali e agli interventi di polizia. All’origine vi è il rifiuto dell’altro, del diverso, del lontano, che con il solo suo insediarsi nel nostro paese ne mette in pericolo i fondamenti culturali e religiosi. Un attentato perenne, dunque, da contrastare in ogni modo. Inutile insistere sulla radice razzista di questo atteggiamento e sul fatto che, considerando pregiudizialmente il migrante irregolare come il responsabile di un reato, viene così potentemente e pericolosamente rafforzata la propensione al rifiuto. Non dimentichiamo che a Milano si cercò di impedire l’iscrizione alle scuole per l’infanzia dei figli dei migranti irregolari, che si è cercato di escludere tutti questi migranti dall’accesso alle cure mediche, pena la denuncia penale.
In questi anni sono stati soltanto i pericolosi giudici, la detestata Corte costituzionale, a cercar di porre parzialmente riparo a questa vergognosa situazione, a reagire a questa perversa “cultura”. Già nel 2001 la Corte costituzionale aveva scritto che vi sono garanzie costituzionali che valgono per tutte le persone, cittadini dello Stato o stranieri, “non in quanto partecipi di una determinata comunità politica, ma in quanto esseri umani”, sì che “lo straniero presente, anche irregolarmente, nello Stato ha il diritto di fruire di tutte le prestazioni che risultino indifferibili e urgenti”. Un orientamento, questo, ripetutamente confermato negli anni seguenti, motivato riferendosi all’“insopprimibile tutela della persona umana”.
Le persone che ci spingono alla commozione, allora, non possono essere soltanto quelle chiuse in una schiera di bare destinata ad allungarsi. Sono i sopravvissuti che, con “atto dovuto” della magistratura”, sono stati denunciati per il reato di immigrazione clandestina. Di essi non possiamo disinteressarci, rinviando tutto ad una auspicata strategia comune europea. I rappresentanti delle istituzioni, presenti a Lampedusa o prodighi di dichiarazioni a distanza, non possono ignorare questo problema, mille volte segnalato e mille volte eluso. Così come non possono ignorare il fatto che lo stesso soccorso “umanitario” ai migranti in pericolo di vita è istituzionalmente ostacolato da una norma che, prevedendo il reato di favoreggiamento all’immigrazione clandestina, fa sì che il soccorritore possa essere incriminato. A tutto questo si aggiunge la pratica dei respingimenti in mare, anch’essa illegittima e pericolosa per i migranti, sì che non deve sorprendere che proprio in questi giorni il Consiglio d’Europa abbia definito sbagliate e pregiudizievoli le politiche italiane nella materia dell’immigrazione.
L’unica seria risposta istituzionale alla tragedia di Lampedusa è l’abrogazione della legge Bossi-Fini, sostituendola con norme rispettose dei diritti delle persone. Contro una misura così ragionevole e urgente si leveranno certamente le obiezioni e i distinguo di chi invoca la necessità di non turbare i fragili equilibri politici, di fare i conti con le varie “sensibilità” all’interno dell’attuale maggioranza. Miserie di una politica che, in tal modo, rivelerebbe una volta di più la sua incapacità di cogliere i grandi temi del nostro tempo. Siano i cittadini attivi, spesso protagonisti vincenti di un’“altra politica”, ad indicare imperiosamente quali siano le vie che, in nome dell’umanità e dei diritti, devono essere seguite.
Zagrebelsky e la “via maestra”: Italia, paese delle ipocrisie
8 ottobre 2013 - Nessun Commento »
Vera Schiavazzi
Seicento persone, silenziose (a parte gli applausi) e attente, in un clima di “insolita serenità e concentrazione”, come ha osservato Gustavo Zagrebelsky concludendo l’assemblea. L’iniziativa torinese di preparazione alla manifestazione nazionale di sabato “Costituzione. La via maestra”, partita dall’appello firmato dallo stesso Zagrebelsky, dal fondatore del Gruppo Abele don Luigi Ciotti, dal segretario della Fiom Maurizio Landini e da Lorenza Carlassare e Stefano Rodotà, si è conclusa ieri sera dopo mezzanotte nel salone di corso Trapani di fronte a oltre 600 persone.
Moderati dal segretario della Fiom torinese Federico Bellono (“In questi anni di battaglie per il lavoro - ha detto il sindacalista - la Costituzione si è rivelata uno strumento di difesa molto più efficace di tanti altri”) i lavori sono stati aperti da Ciotti, che ha subito affrontato uno dei temi più caldi e dolorosi, la strage di Lampedusa, chiedendo l’abolizione della legge Bossi-Fini. “Perché un prete si impegna in una manifestazione per la Costituzione? Perché oggi più che mai è necessario che siano le singole persone a mettersi in gioco. Il 12 a Roma non sarà la conclusione, ma solo l’inizio della nuova stagione politica che vogliamo. Non basta commuoversi, bisogna muoversi”.
Dopo di lui, una quindicina di interventi: temi apparentemente disparati, come eterogenea era la platea, ma tenuti insieme dal filo rosso di una visione fortemente alternativa: acqua pubblica, no alla privatizzazione dei trasporti, no ai tagli alla scuola e alla sanità, no al dominio della finanza sull’economia reale, porte aperte a chi fugge dalla miseria e dalla guerra. Così Ugo Zamburru, psichiatra e presidente dell’Arci, così gli studenti delle Officine Corsare (“Il diritto allo studio è stato cancellato, in compenso al posto delle piste ciclabili ci sono più auto a causa dei tagli al trasporto pubblico”), così lo storico Marco Revelli, che ha seguito l’assemblea seduto sotto il palco dopo essere intervenuto per motivare la propria adesione (“è bene essere preoccupati”), così Oliviero Alotto di Terra del Fuoco che ha ricordato l’impegno dell’associazione nei campi rom.
E Giorgio Airaudo: il parlamentare di Sel ha ricordato come una parte importante della battaglia sui diritti si giochi proprio a Torino, dove migliaia di lavoratori continuano a perdere o a rischiare di perdere il posto di lavoro e dove “abbiamo un sindaco che prende come un’offesa personale qualunque preoccupazione sul futuro della città”. Chiara Acciarini ha parlato a nome dell’Anpi (di cui è vicepresidente, mentre il numero uno Diego Novelli era in sala), sottolineando tra l’altro la necessità di realizzare gli impegni costituzionali in materia di istruzione. E Euro Carello, intervenuto a nome di Emergency: “Siamo qui perché curando le persone ci occupiamo di diritti, dignità, salute. E perché vogliamo che l’Italia ripudi davvero la guerra come è scritto nella Costituzione”, il consigliere regionale ex grillino Fabrizio Biolé.
Poi le conclusioni di Zagrebelsky. “Il 12 saremo a Roma per dire che sta accadendo qualcosa di poco chiaro in Italia - ha esordito il costituzionalista - ma noi lo abbiamo capito. E’ grave che non sia levata alcuna voce a difendere la nostra storia quando nel rapporto di JP Morgan si è letto che la nostra è una ‘Costituzione infida’. Questo è un paese ipocrita, e la prima ipocrisia è tessere le lodi della prima parte di quella Costituzione che però si vuole cambiare”. Ma ce ne sono altre: “La seconda è invocare ‘una legge subito’ su qualunque tema. Non si è voluto consentire il referendum che avrebbe abrogato il Porcellum, però si invoca ‘subito’ una nuova legge elettorale che non si fa. Lo stesso avviene quando c’è uno scandalo, o una strage di migranti. La terza ipocrisia è far credere che possa esistere un risanamento economico senza equità, mentre il valore prodotto dalle aziende viene investito altrove nella finanza e non produce altro lavoro. E’ un vero e proprio furto, che impoverisce i cittadini e fa salire le borse. La quarta ipocrisia è la fine della politica: con tutto il rispetto, la conferma di Napolitano alla presidenza della Repubblica è emblematica del blocco che viviamo”.
Infine, Zagrebelsky ha tracciato i confini della manifestazione del 12: “Vogliamo che in piazza ci siano i cittadini che intendono riaffermare la loro sovranità. In questo senso, le battaglie di ciascuno, come quella no Tav, non potranno essere al centro. Ma lo sarà la democrazia: i sindaci che hanno chiesto al Capo dello Stato di essere ascoltati su quest’opera ne hanno il diritto. E ai miei amici che hanno contribuito al lavoro preparatorio sulle riforme dico: ‘Voi non siete piduisti striscianti come altri, ma rischiate di contribuire a questa cultura’. Se non siete ipocriti, il 12 verrete tutti”. Lunghi applausi, domande e colletta per i pullman diretti a Roma.
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