
Si
possono definire i critici «gufi e rosiconi», caro Matteo, e
intellettuali come Rodotà e Zagrebelsky «professoroni o presunti tali»
(sì, anche invece di rispondere nel merito alle critiche). Si può tirare
in ballo il doppiopesismo della sinistra sfoderando l’arma derisoria
per tutte le stagioni, i «girotondi». Si possono annunciare infinite
promesse – ogni volta che apro il giornale ne trovo di nuove – e poi
minimizzare se le date slittano e i conti non tornano (dicendo con
fastidio, invariabilmente, «i soldi ci sono»). E si può anche dipingere
un mondo in cui da una parte ci sei tu, l’antisistema, che vuole
cambiare tutto e dall’altra «l’establishment, il sistema» –
parola di
Cazzullo, nell’intervista odierna – che per definizione invece resiste,
si oppone, è «palude», un magma indefinibile di forze tutte
conservatrici e – guarda caso – tutte dissidenti, come se in Italia ci
fosse una opposizione unita, unica, solida, il cui unico collante sia
non cambiare assolutamente nulla (non che non ci siano i conservatori,
anzi: è che io dovunque mi giri sento al contrario proclami di voler
cambiare tutto, proprio come quelli di Renzi). Ma se lo fai, caro
Matteo, poi non lamentarti se parliamo di autoritarismo, se pensiamo che
non è solo la comunicazione ma lo stile di leadership politica ad
accomunarti alla «destra» (sì, anche la postideologia si può abbracciare
in modo ideologico – e sarebbe da ricordarlo pure a Galli Della Loggia,
che nell’editoriale di ieri sembrava dimenticarlo), quella (pessima)
che abbiamo conosciuto in Italia: la lingua, bruttissima, è proprio la
stessa; un misto di arroganza e denigrazione per chi non la pensa al tuo
modo che francamente speravo si potesse evitare di riproporre in una
leader che si vorrebbe tutto nuovo (io ancora non ho capito dove
starebbe la novità), e soprattutto che dovrebbe condurre a «cambiare
verso» proprio a partire dall’educazione, e dunque dalla cultura. Ce n’è
stato un altro negli ultimi vent’anni, Matteo, che è arrivato al potere
con quella di travolgere lo status quo, e di travolgerlo subito, ma
solo ed esattamente nel modo in cui voleva lui. Anche lui faceva straw
men di tutti quelli che si opponevano («comunisti!» – che dici, ci
arriverai anche tu?). E anche lui diceva che prima che alle parti
sociali e ai politici e ai giornalisti parlava ai cittadini. Bene,
vorrei ricordarti che – nonostante un impero economico – non ha
funzionato, e personalmente ringrazio il cielo. Ma non, caro Matteo,
perché resisto al cambiamento, perché «gufo», «rosico» o mi piace la
«palude» da cui tu vorresti fuggire a «piè veloce»: perché resisto al
metodo con cui viene proposto. E il metodo, di cui il linguaggio trovo
sia una parte essenziale, viene prima del contenuto. Più che di correre,
lanciare ultimatum e snocciolare emergenze, c’è bisogno di recuperare
una sana normalità nel modo in cui si argomenta e discute di politica e
di temi pubblici in questo paese. Ecco, Matteo: tu da questo punto di
vista mi sembri perpetuare l’«anomalia». Di conseguenza, io perpetuo il
mio dissenso.
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