20 gennaio 2013 10:48 | 3 commenti
di LIVIO PEPINO
Dal
manifesto di domenica 20 gennaio 2013.
Siamo
arrivati alla chiusura delle liste elettorali la cui messa a punto è stata,
come sempre, assai laboriosa. Per tutti, anche per Rivoluzione civile, intorno
alla quale si è aperto su queste pagine un dibattito interessante sul presente
e il futuro della sinistra.
Da ultimo
con un intervento di Alberto Burgio che invita rudemente i critici (tra cui mi
annovero) a smetterla di fare gli schizzinosi e a prendere atto che questa è la
zattera di salvataggio per la sinistra italiana, da cinque lunghi anni «in
attesa di uscire dalle catacombe». Sorprende che Burgio non ricordi che è stato
proprio un progetto simile a questo (la Sinistra Arcobaleno) a relegare la
sinistra in quelle catacombe. Dimenticarlo non aiuta a riportarla alla luce,
neppure in caso di superamento del quorum.
Il
programma di Rivoluzione civile – si dice – è l’unico autenticamente
antiliberista. È vero ed è cosa di grande rilievo. Aggiungo che esso non si
limita alla critica ma contiene, almeno in nuce, un progetto alternativo per
uscire dalla crisi. Lo dico con convinzione anche perché vi si è arrivati
grazie all’influenza del progetto elaborato da «Cambiare si può» (come si può
agevolmente constatare confrontando i due programmi). Perché, allora, criticare
la nuova lista? Perché le indicazioni programmatiche, se non sorrette da un
reale radicamento sociale e da adeguate garanzie personali, rischiano di
restare dei «pezzi di carta», come usava dire Bettino Craxi che della materia
si intendeva… Segnalarlo non è un preziosismo perché le scottature bruciano
ancora (chi ha dimenticato i ripetuti voti in favore di operazioni belliche da
parte di una sinistra programmaticamente pacifista?) e perché – sarebbe bene
ricordarlo – la Sinistra Arcobaleno non fu certo sconfitta, politicamente prima
ancora che elettoralmente, per carenze o ambiguità programmatiche! Il fatto è
che un reale cambiamento deve passare attraverso una profonda discontinuità di
prassi e comportamenti.
È questo
il nodo irrisolto (e decisivo): chi fa la politica? i cittadini, singoli e
organizzati nella rete di movimenti, associazioni, comitati (e, con essi, i
partiti) che animano il quotidiano e i territori? o un ceto politico
professionale, investito di una ampia delega, che trae la sua legittimazione da
una sperimentata capacità tecnica (sic!)? Questo è il tema vero: un tema
strutturale, che prescinde da inadeguatezze e scandali (pur intollerabilmente
diffusi) e che sopravanza le questioni (strumentalmente e demagogicamente
agitate) dell’età dei candidati o della esistenza di precedenti mandati. Non
solo i partiti tradizionali ma la stessa forma partito, così come la
conosciamo, è superata, finita, travolta dagli eventi (pur essendo stata –
meritoriamente – l’asse portante dello sviluppo della democrazia del
dopoguerra). E quel che è finito non si può resuscitare.
Occorrono
forme diverse, nuovi modi di partecipazione, una revisione dal basso dei
sistemi della rappresentanza. Senza una rifondazione profonda – inutile
illudersi e illudere – è finita anche la sinistra. Ed è proprio il punto che
Rivoluzione civile elude riproponendo metodi logori e perdenti.
C’è in
essa, anzitutto, una perversa accentuazione del personalismo e del leaderismo,
che non si può accantonare con sufficienza all’insegna del «così fan tutti…».
Il candidato premier sovrasta con il proprio nome, scritto a caratteri cubitali,
il simbolo e compare come capolista in tutte le circoscrizioni, relegando gli
altri in posizione ostentatamente subalterna: a riprova che l’elezione è
determinata non da una investitura dei cittadini ma dalla benevolenza del
leader e dalla sua scelta, dopo il voto, del dove dimettersi (indicando così i
sommersi e i salvati). Ma in questo modo non si fa che incentivare il processo
di trasformazione del leader in capo e unico titolare del rapporto con
l’elettorato (da gestire a distanza, al di fuori di un contatto diretto,
attraverso gli schermi televisivi della «democrazia del tinello»). Ciò,
inoltre, non riguarda solo il leader: pressoché ovunque i candidati che lo
seguono sono estranei alle realtà virtuose dei territori e catapultati, con una
designazione dall’alto, in una pluralità di collegi in modo da consentire poi,
attraverso il gioco delle rinunce, la costruzione della rappresentanza come un
puzzle studiato a tavolino e con logiche spartitorie. Tutto questo mortifica le
energie migliori e aumenta il senso di estraneità alla politica, con
conseguenti disaffezione e astensionismo. Né vale a porvi rimedio l’inserimento
nelle liste di personaggi provenienti dalla cosiddetta «società civile».
Espediente per certi versi ancor più grave, in quanto cumula la continuità
burocratica con un rapporto solo proclamato con il tessuto sociale: mentre
questo rapporto ha un senso se significa immissione nella scena politica di
metodi diversi (per portare nel palazzo non solo persone ma rapporti con il
territorio e processi alternativi di rappresentanza e di decisione), non anche
se si limita alla cooptazione dall’alto di alcuni esponenti (pur personalmente
apprezzabili).
Di questo
sarebbe stato – e sarebbe – utile parlare senza stracciarsi le vesti per le
critiche. Non per esibire antichi vizi intellettualistici ma per evitare che la
sinistra continui ad essere condannata alle catacombe: anche se, come mi
auguro, riuscirà a mandare in Parlamento un pugno di rappresentanti
(inevitabilmente isolati e tra loro divisi).
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