Scritto da Diego Fusaro
Pubblicato Lunedì 30 Dicembre 2013, ore 7,00
Se
ne va il 2013. Uno degli anni più terribili degli ultimi tempi, con
buona pace delle rassicuranti retoriche di regime che, pur
riconoscendone limiti e miserie, continuano a sottolineare anche aspetti
positivi e, naturalmente, possibilità per il futuro. Non bisogna farsi
illusioni. Il primo gesto di onestà, come sapeva Louis Althusser,
consiste sempre nel “non raccontar(si) storie”. E non raccontarsi storie
significa, in questo caso, riconoscere apertamente che il 2013 è stato
un anno di latitanza del conflitto e di trionfo incontrastato del
capitale.Pubblicato Lunedì 30 Dicembre 2013, ore 7,00
Ieri come oggi, la logica immanente ai rapporti di forza capitalistici è quella in virtù della quale il capitale non risponde in termini di giustizia e di riconoscimento, a meno che non sia costretto a farlo dalla forza della critica e dalla reazione organizzata dei dominati. Infatti, il capitale – Marx docet – si impadronirebbe dell’intera giornata lavorativa e, di più, della totalità dell’esistenza degli individui, se la società non reagisse ponendo limiti e organizzando strategie di disobbedienza meditata. È quanto sta oggi accadendo su tutto il giro d’orizzonte.
Il successo delle strategie di reazione al capitale vincente è garantito unicamente dall’unione delle forze – contro l’individualizzazione in atto – e dalla convinzione che ciò che attualmente è non sia un destino ineluttabile, ma una situazione passibile di trasformazione: ancora con Marx, non un solido cristallo, bensì un organismo in evoluzione. Il silenzio e la passività degli offesi determinano, di conseguenza, l’assenza di risposte dal capitale, il suo perseverare nell’oscena opera di prosciugamento delle nostre esistenze.
Quando la possibilità della vittoria o, anche solo, della sconfitta scontata lottando attivamente è azzerata in partenza, si spegne ogni possibile conflitto. Si subiscono passivamente gli attacchi di un nemico che non ha smesso di vincere. Il senso dell’ingiustizia e di un’ira gravida di buone ragioni ammutolisce nella mestizia solitaria di chi, sapendosi impotente, non intraprende nemmeno la fatica del conflitto. La muta sofferenza degli esiliati dal sistema resta perennemente disinnescata finché resta interrotto il legame sociale e disattivato il senso della possibile redenzione. Se il capitale oggi è vincente, ciò dipende appunto, anzitutto, dal fatto che è riuscito a inoculare nelle teste il veleno dell’ideologia dell’intrasformabilità dell’esistente, vuoi anche della realtà data come solo mondo possibile.
È questo il modo in cui, in termini generalissimi, mi sento di ripercorrere l’anno che sta in questi giorni volgendo al termine: assenza del conflitto, trionfo del capitale. Lo si riscontra su tutta la linea, senza eccezioni: i diritti dei lavoratori sempre più calpestati; fantocci mediatici come Renzi salutati come nuovi eroi della sinistra in fuga da Marz; forme contrattuali sempre più indegne, che costringono gli individui a esistere nella forma della lotta per la quotidiana sopravvivenza; i giovani ridotti a un amorfo terzo stato di migranti e precarizzati. Il lager economico chiamato Europa – un’oscena realtà concentrazionaria in cui l’asservimento e la schiavitù si chiamano pudicamente austerity e spending review, fiscal compact e deregulation – è il luogo in cui meglio traspare il vero volto mefistofelico del capitale oggi trionfante.
Non siamo, purtroppo, nelle condizioni di tratteggiare profezie rosee per l’anno a venire. Non ci è dato essere ottimisti. Come amava dire Preve, siamo pur sempre allievi di Hegel e di Marx, non di Jovanotti. Ci sentiamo, tuttavia, di chiudere l’anno con un auspicio, la cui realizzazione dipenderà unicamente dalla capacità degli offesi di tornare a dare vita a una passione durevole che metta in moto le energie antiadattive e la ricerca di un’ulteriorità nobilitante, la tensione verso un’alterità meno oscena del paesaggio di cui siamo abitatori coatti. L’auspicio è, anzitutto, che il conflitto torni a divampare: che i dannati della terra – popoli e non solo classi – si ribellino alla disorganizzazione organizzata dell’integralismo dell’economia oggi egemonico, alle nuove forme dell’imperialismo che si dice umanitario, ai genocidi finanziari perpetrati dal folle progetto chiamato Europa, alla violenza invisibile (se non nei suoi effetti) prodotta dalla condizione neoliberale. Finché v’è conflitto, v’è speranza.