Chi diede al Cavaliere i fondi per Milano 2? La chiave del mistero in un baule. Nelle mani dei pm fiorentini.
IL SEGRETO DI SILVIO
di Paolo Biondani, Maria Elena Scandaliato e Andrea Sceresini
Da dove sono arrivati tutti quei soldi? Nanni
Moretti, nel film “Il Caimano”, simboleggia in una sequenza beffarda
decenni di dubbi sull’origine delle fortune di Silvio Berlusconi: una
valigia di denaro che cade dal cielo sulla scrivania del costruttore di
Milano 2. Oggi il Cavaliere di Arcore sembra perseguitato da un’altra
valigia. Piena di carte di trent’anni fa. Un baule di documenti
ingialliti dal tempo, conservati da un’eminenza grigia della Dc
milanese. Che ora giura di aver obbedito all’ordine di consegnare tutto
ai magistrati, affinché facciano luce sui misteriosi canali finanziari
che, tra banche italiane e anonime fiduciarie svizzere, avevano
sostenuto le prime scalate di Berlusconi al potere economico.
Ezio Cartotto, 69 anni compiuti da poco, è un
pensionato della politica che vanta una memoria di ferro. Negli anni
Novanta il suo nome era spuntato dal nulla in mezzo alle inchieste che
portarono alla condanna definitiva di Marcello Dell’Utri per falso in
bilancio: il braccio destro di Berlusconi lo aveva assoldato in gran
segreto come super-consulente per la creazione di Forza Italia (nome in
codice, “Operazione Botticelli”) pagandolo con fondi neri e fatture
false. Alto, volto rotondo, occhiali spessi, calvizie incipiente, oggi
Cartotto accetta di spiegare a “l’Espresso” come è nato il suo rapporto
con Berlusconi. E quali segreti potrebbe nascondere quel suo
«baule di carte» scoperto dai pm di Firenze che lo hanno interrogato e intercettato fino all’inizio di quest’anno.
La prima rivelazione, la più prevedibile, è che Dell’Utri non si affidò a un estraneo:
Cartotto aveva conosciuto Berlusconi quarant’anni fa e conquistato la
sua confidenza «aiutandolo a superare un gravissimo problema urbanistico
che minacciava di bloccare Milano 2». Correva l’anno 1972.
«Con la nascita delle Regioni, in Lombardia cambiavano tutte le
regole edilizie. Berlusconi venne a trovarmi perché temeva il
fallimento: l’Edilnord rischiava di non poter più costruire». Fedelissimo
del più volte ministro Giovanni Marcora, all’epoca Cartotto era
responsabile per gli enti locali della Dc milanese. «In provincia
amministravamo 170 comuni, a Segrate avevamo l’assessore all’urbanistica
e poi controllavamo il Pim, il Piano intercomunale milanese». E allora
cosa succede? «
Berlusconi comincia a telefonarmi, mi segue in
macchina, viene a trovarmi a casa… Un tormento. Non ho mai conosciuto
nessun altro dotato di una così grande capacità di vendere se stesso.
Alla fine mi persuade a dargli una mano». Come? «Il problema fu
risolto dai tre direttori del Pim: oltre al nostro della Dc, gli
presentai l’architetto Silvano Larini per il Psi, mentre per il Pci
c’era Epifanio Li Calzi». Due nomi destinati a entrare nella storia di
Tangentopoli. Risultato? «Via libera ai progetti superiori a mezzo
milione di metri cubi, come Milano 2».
Da allora e fino alla nascita di Forza Italia, Cartotto
stringe un rapporto sempre più stretto con il costruttore emergente.
Raccoglie sfoghi e confidenze. E risolve problemi. Grazie alla politica.
«Morirò democristiano», rivendica ancor oggi, rievocando gli anni d’oro
in cui conquistava entrature potenti al vertice dello scudo crociato e
nel mondo degli affari che dipendevano dal partito. Ed è proprio
incrociando le fonti più riservate con le indiscrezioni carpite al
Cavaliere, che Cartotto sostiene di aver capito come fu finanziata la
sua ascesa:
«Ha ottenuto i primi capitali grazie alla P2 e ad Andreotti. Ed erano capitali maleodoranti».
Parole grosse, che Cartotto pronuncia con calma olimpica, nella sua
piccola casa piena di libri, con vista sui capannoni dell’hinterland a
nord di Milano, seduto in salotto accanto al cane accovacciato, tra
tavolini ingombri di carte, lamentandosi degli acciacchi dell’età. Già
nel ’96 aveva raccontato ai magistrati le rivelazioni che gli avrebbe
fatto Filippo Alberto Rapisarda:
presunti pacchi di soldi «spediti da Palermo negli anni ’70 e divisi con Dell’Utri» proprio
da quel chiacchierato finanziere siciliano, destinato nel ’94 a
ospitare il primo club di Forza Italia a Milano. Parole rimaste senza
riscontri e cadute nel vuoto. Ora Cartotto sostiene di avere documenti
inediti. E propone un racconto che parte dalla Banca Rasini, dove
lavorava il padre di Berlusconi, passa per la loggia di Licio Gelli e
arriva all’allora vertice del Monte dei Paschi di Siena, facendo tappa
tra la Svizzera e un istituto di credito italo-israeliano. Che i primi
prestiti a Berlusconi li avesse concessi la Banca Rasini, lo ha
confermato lo stesso Cavaliere, ma il resto è tutto da provare: quali
indizi può offrire, signor Cartotto? «La banca fondata dai nobili Rasini
fu acquistata nei primi anni ’70, tra lo stupore generale, da un certo
Giuseppe Azzaretto, un affarista di Misilmeri, periferia di Palermo. Un
commercialista milanese di altissimo livello, G. R., amico di Marcora e
molto addentro alla Rasini, mi disse subito che quell’istituto
mono-sportello era
“la chiave per il passaggio di capitali maleodoranti”. Un’altra mia fonte fu Luigi Franconi, morto qualche anno fa. E la conferma su Andreotti l’ho avuta da un incontro».
Alt. La Banca Rasini fu effettivamente al centro dei primi
processi per mafia a Milano, che fecero scoprire addirittura conti
intestati ai boss di Cosa nostra. Ma ora Cartotto chiama in causa Andreotti.
Sta dicendo che era il sette volte premier a suggerire dove investire i
capitali mafiosi nascosti in quella piccola banca milanese?
«Ufficialmente la Rasini era di Azzaretto padre e di suo figlio Dario,
ma in realtà era controllata da Andreotti. Era la sua banca personale.
C’è un riscontro che nessuno sa: Andreotti andava in vacanza tutti gli
anni nella villa degli Azzaretto in Costa Azzurra. Di questo ho la
certezza. Per verificare le mie fonti, ho fatto in modo che Sergio,
l’altro figlio di Azzaretto, incontrasse a Roma il nipote di Andreotti,
Luca Danese. Si sono visti davanti a me. Baci e abbracci. Si dicevano:
“Ti ricordi quando giocavamo insieme…”. Detto questo, basta ragionare:
la Cassazione, con la sentenza di prescrizione, ha stabilito che
fino al 1980 Andreotti è stato il referente politico dei più ricchi boss
di Cosa nostra. E a quel punto chi ha comprato, o si è
intestato, la Rasini? Nino Rovelli, l’industriale legatissimo ad
Andreotti, ma anche all’avvocato Cesare Previti. Come vedete, tutto
torna».
Come logica politica, forse, ma la verità storica richiede certezze. Che Cartotto è convintissimo di avere:
«Negli stessi anni Berlusconi aveva una corsia preferenzialissima al
Monte dei Paschi. Ricordo che andava spesso a Siena, anche una volta
alla settimana. E otteneva finanziamenti enormi. Infatti all’epoca la
banca era diretta da Giovanni Cresti, che nell’81 risultò iscritto alla
loggia P2 come Berlusconi». Tessera 521, si leggeva sulla lista, ma il
banchiere smentì tutto. Cartotto invece insiste:
«Era uno dei più importanti dopo Gelli. Secondo le mie fonti era il numero 3».
Un fatto certo è che la commissione Anselmi inserì Berlusconi tra gli
imprenditori che, grazie alla P2, ottennero massicci finanziamenti
proprio a Siena oltre ogni merito creditizio. Ma Cartotto, che cita nomi
e confidenze di vari amici iscritti alla loggia, si spinge molto più in
là:
«Il mondo di Andreotti e la P2 erano sovrapponibili». In che senso? «Andreotti era il dominus politico della P2. Secondo molti, il vero capo sarebbe stato lui».
Tra ricordi, confidenze, deduzioni e convinzioni personali, Cartotto parla anche di carte segrete che proverebbero fatti certi.
E qui spunta il baule di documenti che, non a caso, gli sono stati richiesti dai magistrati di Firenze.
«Riguardano un aumento di capitale per Milano 2, che avevo seguito
personalmente. Era il 1973. Allora Berlusconi figurava come dipendente
dell’Edilnord, che era una società di persone controllata da finanziarie
svizzere intestate a una domestica o a un fiduciario. Era chiaro che
erano tutte balle e che in realtà l’Edilnord era sua. Quindi Berlusconi
mi disse che aveva bisogno di creare una più presentabile società di
capitali.
Ma all’epoca era proibito mandare i soldi all’estero.
Allora gli feci un favore. Lo chiesi a un mio caro amico democristiano,
l’avvocato Ferruccio Ferrari, che era l’amministratore della Cefin, la
società che finanziava le nostre cooperative bianche, poi fallita.
Questa Cefin aveva una bella quota, se non ricordo male il 30 per cento,
della Banca italo israeliana, un istituto con un solo sportello a
Milano. Attraverso questa banca abbiamo fornito in Svizzera a Berlusconi
il denaro per l’aumento di capitale. Ferrari era uno specialista in
queste operazioni. E alla fine mi disse: “Tutto a posto, Berlusconi ci
ha restituito i soldi”. Insomma, le società erano svizzere, ma i soldi
erano tutti italiani. E la reale provenienza l’abbiamo già vista:
capitali maleodoranti».
E lei per tutti questi anni ha tenuto i documenti in un
baule? «Sì, in una soffitta». E perché? «Per poter dimostrare che
Berlusconi ha raccontato bugie fin dall’inizio». Eppure lei è
stato suo consulente per vent’anni, salvo litigare nel ’96, dopo aver
testimoniato su Dell’Utri. «Berlusconi è un uomo molto intelligente e
seduttivo. Ricordo quando riuscì a far comprare da un ente pubblico gli
appartamenti dell’Edilnord di Brugherio che erano rimasti invenduti. Il
presidente era un ottimo burocrate che io conoscevo bene, Vito Mancuso,
già commissario all’Eur sotto il fascismo, poi legato ad Andreotti.
Berlusconi lo tempestava di richieste, ma lui non sentiva ragioni.
Un giorno il dottor Mancuso prese un treno per Milano e si trovò da solo
con lui. Berlusconi aveva comprato tutti i biglietti. Alla fine Mancuso
si arrese. Berlusconi è davvero straordinario nel fare i suoi
interessi». E perché poi avete litigato? «Al processo di Palermo
avevo l’obbligo di dire la verità, quindi rivelai ai giudici che
Dell’Utri, negli anni ’70, mi aveva chiesto voti per Vito Ciancimino.
Dell’Utri si arrabbiò e si lamentò con Berlusconi. E io feci l’errore di
rispondere al Cavaliere che solo Dell’Utri poteva affidare Forza Italia
a Milano a uno come Rapisarda». Il sindaco mafioso Ciancimino e il
bancarottiere Rapisarda: proprio i rapporti pericolosi al centro del
processo-bis contro Dell’Utri a Palermo. Ai giudici l’arduo verdetto.